Articolo di Vittorio Grimaldi – Autore Ospite de La Lampadina
Vi racconterò una storia curiosa di tanti anni fa, una storia i cui effetti non si sono ancora esauriti. Una storia che ha riferimenti artistici, sociali e ovviamente legali, laddove, ancora oggi, dopo più di 40 anni, si disquisisce di reati permanenti piuttosto che di reati istantanei a effetti permanenti. Il 15 maggio del 1971 pensavo alla mia missione mentre guidavo su una Flaminia che oggi non vi potete neanche immaginare tanto era deserta, piena di buchi (che forse ci stanno ancora), curve e saliscendi, ma in cui si poteva ancora sentire il profumo dei campi. Contavo di arrivare a Gubbio entro le 11 per iniziare una “due diligence”. Il compito mi era stato affidato da Harry Bailey che era il rappresentante della Christie’s a Roma. Con lui avevamo aperto il primo ufficio della casa d’aste in Italia. Una vera e propria corsa ad ostacoli per l’ostilità degli antiquari romani che vedevano nella Christie’s un concorrente pericoloso anziché un’occasione per allargare un mercato piccolo e asfittico in cui, più degli antiquari prosperavano rigattieri e faccendieri che, alla ricerca di opere antiche e non notificate ronzavano attorno agli eredi, spesso squattrinati della nobiltà nera romana. La Christie’s, con le sue aste alla luce del sole, pubbliche per definizione, avrebbe bloccato o, perlomeno limitato, quei traffici opulenti e clandestini.
A Gubbio avrei dovuto incontrare un imprenditore locale, un certo Barbetti, che aveva proposto a Harry nientemeno che l’acquisto di un bronzo di Lisippo, di 1400 anni pescato nel Mar Adriatico. Il 15 maggio a Gubbio si tiene e si teneva (ma, allora, a mia insaputa) la festa dei ceri. Potete immaginarvi il caos in cui piombai. Tutti i notabili del paese erano seduti a banchetto nella loggia del Palazzo dei Priori. A capotavola sindaco e pretore fecero l’onore di invitarmi. Il pretore sapeva tutto della vicenda e tra una portata medievale e l’altra mi espresse la sua frustrazione in quanto i presunti ladri e ricettatori del Lisippo (fra cui il Barbetti) l’avevano fatta franca: a cominciare dai pescatori, che con le loro reti a strascico avevano pescato la statua, fino ai ricettatori dell’opera che erano tutti maggiorenti del paese. Fra questi non poteva mancare il solito prete! Una vicenda alla Piero Chiara condita, dopo il ritrovamento, da un processo all’italiana in cui non s’era riuscito a provare che il reperto proveniva da acque territoriali, pur essendo a tutti noto che la pesca a strascico si effettua solo su bassi fondali. Eppure, per questa ragione l’accusa di ricettazione nei confronti del Barbetti, che per poche lire aveva acquistato la statua dai pescatori, era venuta a cadere. Tutti assolti per insufficienza di prove e addio dell’Italia all’unica statua di Lisippo ancora esistente.
Tuttavia, anche dopo quel giudicato i miei amici non avrebbero potuto acquistare un bene culturale che comunque era transitato sul territorio nazionale ed era poi stato esportato violando le leggi doganali e di tutela del patrimonio artistico. Tornai dunque a Roma pieno di dubbi. Potevo o no consigliare ai miei clienti l’acquisto della statua a un prezzo ben più alto di quello ricevuto dai pescatori di Fano? Come ho detto ero giovane e ancora fresco di studi. Così andai a ripescare le dispense dalle lezioni di Massimo Saverio Giannini sull’attività amministrativa. Solo se fosse mancato il requisito della “culturalità” il Lisippo poteva essere acquistato. Secondo me la mancanza di questo requisito non derivava dalla sentenza che aveva assolto il Barbetti in via definitiva dal reato di ricettazione ma dall’indifferenza delle autorità italiane a fronte di un procedimento protrattosi per più di cinque anni fra primo grado, appello, Cassazione e rinvio. E’ pur vero che chi aveva esportato la statua avrebbe dovuto comunque sottoporla, in quanto bene evidentemente archeologico, alla verifica delle autorità doganali, ai fini dell’ottenimento di un attestato di libera circolazione. Ma questa verifica, potei argomentare, era avvenuta indirettamente in quanto la pubblica amministrazione, non costituendosi parte civile nel lungo processo celebrato contro Barbetti e compagni, aveva conferito al Lisippo una sorta di certificato tacito di libera uscita. Il comportamento omissivo della Pubblica Amministrazione era “significativo” poiché con il processo lo Stato era stato posto in grado di verificare la sussistenza o meno dell’interesse artistico della statua. Secondo Giannini l’autorità che tace nell’ambito di un qualsiasi procedimento tiene un comportamento “significativo” purché riceva un’intimazione a provvedere. Secondo me il processo penale costituiva una sorta di prolungata intimazione a provvedere colpevolmente ignorata dalle nostre autorità. Alla luce di questa tesi ritenni che l’acquisto voluto dal mio cliente sarebbe stato giuridicamente valido ed efficace. La giuridicità prescinde ovviamente da considerazioni di carattere etico o politico. Io ho fatto l’Avvocato e quindi l’interesse del mio cliente che, devo ammettere, in quest’occasione era in contrasto con quello del mio paese. Il Lisippo fu poi rivenduto nel 1977 al Getty Museum a un prezzo incredibile e il Getty ha costruito intorno a questo capolavoro unico un intero museo. La storia non è finita qui. Per il Tribunale di Pesaro il Lisippo deve essere confiscato nonostante la Corte Costituzionale abbia affermato che non può confiscarsi un bene che appartiene a chi non ha compiuto rispetto a esso alcun reato. Non solo. L’Avvocato che ha redatto quel parere nel lontano 1971 è tuttora indagato per concorso nel reato di esportazione clandestina di opera d’arte, mai prescritto giacché considerato, sulla base di una tesi palesemente assurda, reato permanente anziché reato istantaneo.
Vittorio Grimaldi