VITA: smartwatch e fast living

E’ di qualche tempo fa la notizia che in autunno, se ce la farà, la Apple consegnerà al mondo intero l’I-Watch. Esempi commercializzati ce ne sono già, di altri produttori fra i quali uno italiano (i’m Watch). Si tratta in effetti di un orologio assai smart, che avvisa di sms, chiamate, email e quant’altro in arrivo sullo smartphone che può così rimanere nella borsa, sulla scrivania o comunque lontano (ma non troppo) dal suo padrone.
Cui prodest? Perché creare qualcosa che ti avvisi se sei richiesto e che ti comunichi che ci si aspetta qualcosa da te in tempi più che rapidi? Abbiamo così paura di non essere cercati? Di non servire? Senza di noi per un po’ che può succedere?
Quanti di noi non possono realmente permettersi il lusso di non essere sempre connessi con il mondo esterno? Il tempo è diventato il nostro Signore e Padrone. Ma non è sempre stato così, anzi.
Siamo in inconscia attesa di stimoli esterni al nostro fare, dire, reagire, quasi che se non ne ricevessimo, rimarremmo immobili, sospesi in una realtà quasi quantistica, in cui siamo e non siamo nello stesso istante.
Non siamo più capaci di prendere spunto dall’interno di noi? Perché ci dobbiamo sempre rapportare e dar conto a ciò che sta al di fuori della nostra persona?
Siamo arrivati al punNL19 - 6 - fast livingto che solo se facciamo tante cose nella stessa giornata, ci sentiamo “realizzati”; solo se ci comportiamo come un tablet multitasking, ci sentiamo ON, attivi, funzionanti.
E’ la nostra inconscia paura di non esserci, di non lasciare traccia se non interagiamo strettamente con ciò che è altro da noi e con coloro che ci circondano?
Siamo arrivati al punto di non lasciarci il tempo per farlo scorrere alla giusta, reale velocità. E’ un “fast living” che ci fa perdere di vista il 60% di ciò che ci si para davanti.
E’ come continuare a correre su un offshore intorno a Ponza, senza la possibilità di vedere calette, grotte, piscine naturali, costruzioni nascoste nel verde della costa. Siamo colpiti solo da ciò che è, come si dice in gergo marinaro, “cospicuo”, cioè grande, inevitabile alla vista, ingombrante. E a questo tendiamo ormai a dare importanza. In tutto ed erga omnes.
Facile, umanamente quasi inevitabile, fare errori di valutazione anche macroscopici.
Stiamo andando troppo veloci. Non c’è nulla di male nel fatto in sé. E’ solo che non ce la facciamo.
Qualche giorno fa, il top manager di Swisscom, anche acquisitore di Fastweb, ha deciso di andarsene. Dal mondo. Era antesignano, fautore e convinto assertore dell’interconnessione sempre e ovunque. Hanno scritto che la chiave di lettura della sua azione si può trovare nella sua vita privata. Non era connesso con la sua parte interiore. Ha perso il segnale.
Ho un pc, due tablet, un Blackberry ultima generazione, in futuro forse anche uno smartwatch.
Ho scritto queste righe a mano, su un foglio volante con una penna azzurra di mia figlia corredata di paillettes e piumette bianche.
In un luogo dove il Blackberry non prende.

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Carlotta Staderini
31 Luglio 2013 15:56

Questo articolo mi ha fatto pensare ad un libro che lessi anni fà di Alessandro Baricco “I Barbari – saggio sulla mutazione” I barbari, diceva Baricco,vanno dove trovano sistemi passanti. Nella loro ricerca di senso, di esperienza vanno a cercarsi gesti in cui sia veloce entrare e facile uscire, traiettorie di links che corrono in superficie;amano lo spazio che crea un’accellerazione. Non si muovono in direzione di una meta perchè la meta è il movimento.Così oggi “L’ESPERIENZA” è qualcosa di diverso. Sono traiettorie che non vanno in profondità, Si cerca di abitare più zone possibili con un’attenzione abbastanza bassa:una nuova idea di ESPERIENZA.Una nuova forma del percepire: una nuova civiltà. E pensare che Walter Benjamin diceva: “la noia è l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza” Il mondo dove siamo cresciuti pensava proprio così…

Beppe
30 Luglio 2013 19:39

Qualche considerazione “filosofica”:
alla base del successo della “connessione permanente” c’e’ una realta’ psicologica tutt’altro che banale: l’uomo (lo essere umano, non importa se maschio o femmina ) ha la profonda consapevolezza di non avere “in se’ stesso” l’ESSERE. L’essere lo riceve dal di fuori.
Se non “sei per qualcuno”, se non c’e’ qualcuno che te lo conferma, non “sei” in assoluto, non esisti.
Il restare perennemente “connessi”, lo stare sempre al telefonino/smartphone- avete osservato, andando per la strada quanta gente cammina o guida parlando al telefonino?, ci si chiede: ma come si faceva a vivere quando il telefonino non era stato ancora inventato? – risponde all’esigenza di essere rassicurati dal fatto che c’e’ qualcuno che ti ricorda, che ti pensa, per il quale tu esisti, per il quale tu SEI.
La “connessione” e’ la forma moderna della esigenza che sta alla radice dell’uomo: l’esigenza di “essere per qualcuno” o, detto altrimenti” di “sentirsi amati”.
Per questo la “povertà” più radicale, quella più intollerabile, non e’ tanto quella di non disporre di beni materiali a sufficienza, cosa certamente “dura” ma “sopportabile” se sei parte di una comunità che condivide la tua stessa situazione, ma quella della “solitudine”, solitudine “affettiva” più che solitudine “fisica”.
Questo spiega perchè quando vai in paesi materialmente poverissimi non e’ raro trovare gente allegra e volti sereni. La vera ” disperazione ” la si vede solo nel nostro mondo “affluente”, ricco, pieno di smartphone, dove la esigenza di “stare connessi” si manifesta.
Il punto e’ che, a ben vedere, il caso del top manager svizzero lo dimostra, il “restare connesso” non basta!