Chi non conosce Robert Redford, Meryl Streep, George Clooney o Michelle Pfeiffer. Ma chi invece conosce Cesare Barbetti, Maria Pia Di Meo, Francesco Pannofino o Emanuela Rossi. Ecco, in questa prefazione è riassunto il destino del doppiatore: vivere nel ombra: Cesare Barbetti, Maria Pia Di Meo, Francesco Pannofino e Emanuela Rossi sono le principali voci italiane di
Robert Redford (qui in “Spy game”) |
Meryl Streep (qui in “Il diavolo veste Prada”) |
George Clooney (qui in “Monument men”) |
Michelle Pfeiffer (qui in “Storia di noi due”) |
Alla fine degli anni ’30, anni in cui il cinema visse una vera e propria rivoluzione grazie all’introduzione del sonoro, il cinema italiano non se la passava particolarmente bene, mentre le Major americane, al contrario, erano assai prolifiche, ma si trovavano a dover fronteggiare un problema: come continuare a rendere fruibili i propri film anche fuori confine.
In quegli anni in Italia vigeva la dittatura fascista e Mussolini (che faceva tradurre ospedale in quisisana e bar in quisibeve) non poteva ovviamente consentire che in Italia venissero proiettati film in lingua straniera. Il primo stratagemma per le pellicole straniere/americane che si tentò di porre in atto fu la “didascalizzazione” dei film, ovvero veniva lasciata la colonna sonora dei “rumori” e delle musiche, ma tagliata la colonna dei dialoghi che venivano sostituiti con delle didascalie testuali. Ma negli anni ’30 il tasso di analfabetismo era ancora molto alto e questa soluzione rendeva quindi assai difficile la fruizione del film, creando quindi una disaffezione verso i film stranieri. Questo ovviamente per le Major americane non era sopportabile, così si attrezzarono creando direttamente delle versioni per l’esportazione, ovvero arruolando attori oriundi/italo americani per ricreare i dialoghi in lingua italiana. Saprete sicuramente che l’accento inglese di Stanlio e Ollio non è uno stratagemma voluto, ma bensì un caso: per poter distribuire questi film al di fuori dei confini americani, gli stessi Oliver Hardy e Stan Laurel recitavano in lingua leggendo il copione tradotto foneticamente. Questo espediente però rendeva i dialoghi inevitabilmente “storpiati” da uno spiccato accento inglese, caratteristica che rese i due attori comici ancor più simpatici al pubblico italiano, tanto che si continuò a doppiarli con quel caratteristico accento inglese anche in seguito con Mauro Zambuto e Alberto Sordi, voci storiche di Stallio e Ollio dal ’39 al ’51 (qui
Nel ’34 fu emanata una legge che proibiva la circolazione di film stranieri doppiati non con attori o professionalità italiane. Ecco quindi che in Italia grandi attori di teatro vengono reclutati per questo nuovo lavoro: dare voce italiana ai grandi attori di Hollywood.
Nel ’45 nasce la CDC, la prestigiosa cooperativa di doppiaggio che vedrà, tra gli altri, attori quali Emilio Cigoli, voce storica di John Wayne, Gregory Peck, Gary Cooper (qui
Giuseppe Rinaldi, voce storica di Paul Newman, Rock Hudson, Jack Lemmon (qui
Rosetta Calavetta, voce storica di Marilyn Monroe, Lana Turner (qui
In quegli anni infatti, con la fine della guerra cade anche l’embargo verso i film stranieri e si riaprono gli archivi dove giacciono numerosissimi film da doppiare: ecco quindi il momento della vera “esplosione” della professione del doppiatore.
Lo spettatore italiano e ormai diventato così esigente che il doppiaggio non è più solo uno strumento per poter vedere i film stranieri, ma una vera e propria tecnica per raffinare la pellicola: nel film Poveri ma belli del ’56, furono si scelti dei giovani attori, belli ed aitanti, ma avendo poca dimestichezza con la dizione e padronanza della voce, furono quasi tutti doppiati: Maurizio Arena parla con la voce di Sergio Fantoni, Maria Pia De Meo doppia Marisa Allasi e così via.
Oggi i professionisti italiani del doppiaggio sono riconosciuti come i migliori al mondo: Amendola, Barbetti, Chevalier, Pasanisi, Locchi, Colizzi, Vairano, Paladini, Gammino, Rizzini, Pedicini… e qui mi fermo perché se ne potrebbero citare moltissimi altri. Se vi interessa approfondire la questione, vi posso consigliare il sito di Antonio Genna, grande appassionato dell’argomento.
Prima di chiudere devo però fare un cenno a coloro che sono ancor più nell’ombra, ovvero gli adattatori, coloro che partendo dal copione in lingua, traducono e adattano il testo in italiano. Adattano in quanto bisogna considerare la lunghezza dei testi ed immaginare la “sincronia” con il movimento delle labbra, ma non solo: il lavoro più importante è anche riadattare le battute o i modi di dire stranieri/anglosassoni in battute altrettanto adatte e coerenti in italiano. Uno tra i migliori esempi di riadattamento è quello svolto da Mario Maldesi per Frankstein junior, film nel quale ci sono numerosi doppi sensi inglesi e modi di dire tra cui il famoso “lupo ululà, castello ululì” (vedi ITA – ENG).
E infine, la pratica del doppiaggio è una sfida per moltissimi giovani attori (ce ne sono numerosi in rete) ancor più quando il doppiaggio diventa “fantasioso” come quelli (forse anche un po “forti”) dei livornesi del “Nido del cuculo” .
Per fortuna il mio paese (francese e fiammingo), il Belgio, non doppia i suoi film per ovvi motivi. Come sapete tutti si parla francese e fiammingo.
Ho visto anni fa un film; “Mangiare bere uomo donna” in cinese, e onestamente, devo dire, la goduria era totale. Il doppiaggio, semmai, deve essere ai massimi dei livelli. Nel suo eccellente articolo, Filippo illustra perfettamente la qualità dei doppiatori italiani. Bravo!
Bellissimo articolo, oltretutto mio fratello Terenzio da bambino faceva doppiaggio quindi conosco la bravura dei doppiatori italiani. Vivo in Olanda dove nessun film viene mai doppiato, tutti sono sottotitolati, inclusi quelli in televisione. Visto che la stragrande maggioranza dei film sono americani, il risultato e’ che, a furia di sentire inglese, ogni olandese lo parla perfettamente. Un bel vantaggio! Francia, Germania e Italia doppiano invece i film (essendo 60 milioni e passa la cosa si giustifica finanziariamente) e, guarda caso, la conoscenza dell’inglese non e’ spesso buona. C’e da domandarsi se non ci stiamo dando la zappa sui piedi.
Caro Valerio, concordo con te: la pratica del doppiaggio ha contribuito a far si che nel nostro paese la conoscenza dell’inglese sia rimasta sempre a livello scolastico, mentre, come testimoni giustamente tu, laddove sei “costretto” a vedere film, telefim ecc. in lingua, impari molto meglio quell’idioma. Ad esempio anch’io quando guardo dei film in dvd, rivedo le stesse scene in italiano e poi in inglese per apprendere modi di dire che di certo a scuola non impari.
Detto questo però vorrei scindere le due questioni e rimanere in tema con il articolo che voleva esaltare la grande professionalita’ e l’arte di molti “grandi” che nonostante il luccichio del mondo del cinema rimangono in ombra.
Filippo