dal libro “Attori si Nasce” (la famiglia De Filippo) di Francesco Canessa
…il cineteatro Diana al Vomero, disponibile ad offrire un contratto, ma limitato al mese di Novembre, con la possibilità di rinnovarlo, se le cose fossero andate bene. Le condizioni erano precarie non soltanto dal punto di vista economico, ma anche artistiche. Lo spettacolo, infatti, si sarebbe alternato alla proiezione di un film, con due recite al giorno e tre nei festivi. Eduardo, che si interessava della parte artistica era dell’idea di rinunciare perché così significava tornare indietro ai tempi del loro esordio in avanspettacolo al cinema Kursaal.
Peppino che curava l’amministrazione, premeva per accettare. Ne avevano discusso a lungo e animatamente, poi era intervenuta Titina anche per porre un argine agli screzi che si creavano di continuo tra i due fratelli ed infine era prevalsa la necessità di riprendere comunque l’attività, il resto si sarebbe aggiustato per strada. Era piena estate, novembre era lontano e l’Autunno era lungo da passare.
Pietro cercò in tutti i modi di trovare un impegno per sé, senza guardare alla qualità o al genere, tutto andava bene se c’era da guadagnare una paga. Finì insieme al fratello Ettore a recitare qualche scenetta in uno spettacolo di canzoni in un teatro di fortuna nella Villa Comunale. Due settimane e basta. Agli inizi di settembre Titina consegnò alla zia Rosina alcuni gioielli perché andasse ad impegnarli.
Non era la prima volta e tra gli attori lo si faceva senza vergogna, era come un salvagente tra la fine di una scrittura e l’inizio di un’altra. Ma per lei era la seconda volta in poche settimane, zia Rosina aveva fatto da corriere per il Monte di Pietà già alla fine di luglio. Il costo della vita s’era gonfiato di colpo, a prezzi calmierati si comprava ben poco e con la tessera annonaria toccavano cento grammi di pane bianco al giorno, cinquanta di carne tre volte per settimana e quote variabili di cibi liofilizzati donati dai comitati di beneficenza degli Stati Uniti, polvere di piselli, o di latte o di uova. Ma al mercato nero si trovava di tutto e bisognava pagare.
L’andirivieni abituale di parenti, ma sempre ospiti paganti, nel lato sinistro dell’appartamento suggerì a quelli di destra di fare qualcosa di simile. Affittare una stanza. Le due zie Ninuccia e Rosina erano tornate a casa loro e la camera che occupavano era libera. Spostando lì Augusto, si poteva però liberare una stanza molto più adatta, la cui porta si apriva sulla sala d’ingresso ed era quasi indipendente.
Qualcuno dei fratelli Carloni suggerì una compagna d’arte, Igea Lissoni, un artista di varietà torinese che faceva un numero di tango. Era disposta a versare una mensilità di deposito e pagare il canone in anticipo, il che la fece preferire all’istante ad un paio di altri pretendenti. La camera le piacque, e bastarono pochi giorni per conquistarsi il gradimento di Titina, che avrebbe preferito non prendersi in casa una persona di Teatro. Ma era riservata e gentile, ogni tanto bussava al suo studio per farle visita. Le raccontò d’essere assai preoccupata per la sua famiglia, che viveva in provincia di Asti e di cui non sapeva nulla da quando l’Italia era divisa in due dalla guerra. Temeva per il padre, che era un vecchio fascista e all’opposto per il fratello, una testa calda che certo se n’era andato in montagna tra i partigiani. Confidò anche di aver conosciuto un italo-americano che voleva sposarla, ma non poteva farlo subito. Veniva da un matrimonio infelice, aveva in corso la causa di divorzio a New York e la sentenza sarebbe arrivata da un momento all’altro.
A sua volta Titina le raccontò un po’ di cose sue, le preoccupazioni per il lavoro e di quanto le mancasse il piano-forte che gli americani le avevano requisito.
Era abituata a mettersi alla tastiera nei momenti difficili e ritrovare la serenità suonando. Aveva studiato ed aveva talento, da giovane si era esibita anche in pubblico durante le serate d’onore al Teatro Nuovo ove cantava canzoncine comiche, recitava poesie napoletane, ma poi sedeva al pianoforte e suonava Mozart e Schubert. Quanto al promesso sposo, la signora Igea non aveva smentito la sua riservatezza, ne aveva fatto soltanto il nome in un paio di occasioni: Salvatore. Riservato era certamente anche costui, non aveva mai bussato alla porta di casa, tutti i pomeriggi mandava una macchina, una Millecento nera con i parafanghi verniciati di bianco per l’oscuramento, a prelevare la fidanzata, che puntualmente rientrava da sola la sera.
Ma una mattina arrivò a Palazzo Scarpetta un automezzo diverso, un furgoncino dell’US-Army. Conteneva un pianoforte, due facchini lo scaricarono e seguiti da un sergente italo-americano lo portarono su da Titina, che però non era in casa. Li accolse Pietro, il sergente fece un po’ di difficoltà perché sul documento di viaggio era scritto che il pianoforte andava consegnato a «signora Difilippo», poi acconsentì a prendere per buona la firma del marito sulla ricevuta. «Our Rest Camp is closing and so is the piano Club. We are going to open a new one near Florence. Thank you from the US-Army. Statte bbuono, paisà!» Il pianoforte era addirittura accordato, quando Titina arrivò non credeva ai suoi occhi, lo aprì e suonò di getto la Marcia Turca di Mozart. Non seppe mai se fosse stato il misterioso Salvatore a sollecitare il miracolo o se questo si fosse compiuto da solo.
La gentile danzatrice torinese si schernì e respinse i ringraziamenti, poi si fece più riservata di prima e di lì a qualche giorno lasciò la stanza. Il suo fidanzato andava a Roma e lei lo seguiva.
Il mistero di chi fosse costui si svelò più avanti, quando il portiere don Peppino raccontò di avere appreso la sua identità dall’autista della Millecento nera, che si era raccomandato di mantenere il segreto. Ma ormai se n’era andato, la promessa era scaduta e poteva dirlo: era Lucky Luciano, alias Salvatore Lucania, il gangster italo-americano che era stato lanciato col paracadute in Sicilia per mobilitare i «piccioni” della mafia ed aiutare l’Operazione Husky che nel luglio del 1943 aveva riversato tra Licata, Gela, Scaglitti e Pachino i centosessantamila uomini della Quinta Armata americana e dell’Ottava inglese. Quando don Peppino ricevette le confidenze dell’autista della Millecento, Luciano, stando alla successiva versione ufficiale, avrebbe dovuto trovarsi ancora a Sing-Sing. Solo due anni più avanti, nel 1946, egli fu infatti graziato dei reati commessi per imprecisati «servizi resi all’Esercito degli Stati Uniti» e consegnato all’Italia come «indesiderabile». Ma questi servizi tanto preziosi per l’Esercito non poteva averli resi dietro le sbarre. La sua missione era ed è rimasta coperta dal segreto militare e mai confermata, ma si sa con certezza che egli fu prelevato dal carcere e messo a disposizione dell’OSS, Office of Strategic Services, l’organismo di spionaggio militare creato dal generale Eisenhower che a guerra finita si trasformerà in CIA, Central Intelligence Agency.
Quanto alla Lissoni, ella comparve pubblicamente accanto a Luciano al termine della sua clandestinità. Ebbe vita breve, morì di cancro a trentasette anni nel 1958 e il suo compagno ne rimase sconvolto. Un infarto lo stroncò quattro anni dopo in una sala d’aspetto dell’aeroporto napoletano di Capodichino2. Certo che Napoli uscita dalle distruzioni della guerra viveva in quei mesi una situazione tragica, con la plebe storica trascinata nell’abiezione, i ceti popolari e quelli operai nella miseria, con le fabbriche bombardate e gli artigiani senza lavoro, e la classe borghese con l’acqua alla gola, per le professioni ferme, il commercio onesto ridotto al lumicino, l’inflazione ingigantita dalla moneta d’occupazione stampata dagli Alleati. Né i tanti, complessi problemi potevano essere affrontati in prospettiva dal governo provvisorio della città, l’Allied Military Government of Occupied Territories (AMGOT) con il suo uomo di punta, il colonnello Charles Poletti al comando dell’Ufficio Affari Civili.
Questi esercitava il suo potere senza scrupolo alcuno e spesso con lo sprezzo del vincitore. Benché parlasse correntemente l’italiano, aveva portato con sé da Palermo, di cui pure era stato governatore, il suo interprete ufficiale, “don” Vito Genovese, un mafioso dalla ricca carriera criminale, già vice di Lucky Luciano a New York, respinto in Italia nel 1937 e reclutato dallo spionaggio militare americano fin dall’inizio della guerra. Così come aveva fatto in Sicilia, il colonnello lo ostentava in pubblico, tenendolo significativamente al suo fianco in tutte le occasioni. Dalla sua posizione Vito Genovese controllava per conto proprio o anche di altri il mercato nero fiorito intorno agli insediamenti militari americani, dalla benzina alle gomme d’auto, dalle scarpe alle coperte, dalle derrate alimentari — farina, caffè, zucchero — alle sigarette, alle balle d’indumenti raccolti in patria per beneficenza, che dalle stive delle navi finivano direttamente sui banchi di un mercatino nella cittadina di Resina, che ne deteneva l’esclusiva. Senza contare gli altri traffici, quello della droga, che in quei mesi si sviluppava incoraggiato dagli stessi militari americani che ne erano i primi consumatori. Ed è probabile che il suo ex boss americano Lucky avesse accettato di invertire i ruoli e gli facesse qui da luogotenente, da braccio operativo sul terreno. Il colonnello Poletti, per stare alle regole aveva istituito una sorta di tribunale speciale, affidato a un altro italo-americano, il tenente Mattias E. Correa. Ma sotto processo finivano soltanto gli ultimi della filiera, piccoli dettaglianti, o ricettatori napoletani…