Articolo di Andrea Scarpini – Autore Ospite de La Lampadina
Era un pomeriggio di Settembre di tanti anni fa e noi fratelli stavamo con la mamma a Madonna di Campiglio. Io avevo 16 anni.
Mi sentii incredulo quando, quel pomeriggio, la più famosa e carismatica guida alpina delle Dolomiti del Brenta, Bruno Detassis, mi chiese all’improvviso, con la sua voce roca e la sua pipa sempre in bocca:
“Andrea, vuoi venire con me stanotte al rifugio Agostini? Andiamo su per la Vedretta d’Ambièz.”
La Vedretta d’Ambièz, che culmina nell’omonima bocca, e’ un passaggio ripidissimo e arduo, su roccia e ghiaccio, difficile da superare anche di giorno.
“Di notte è una follia” ho pensato.
In quei giorni, al rifugio Agostini, c’era mio fratello maggiore Stefano, a far roccia con altri amici alpinisti, e la voglia di dimostrare che il suo fratellino Andrea aveva fatto la Vedretta d’Ambièz in piena notte, e con il dio delle Dolomiti del Brenta, è stata più forte.
Ho guardato Detassis, che come al solito si raschiava la gola e fumava la pipa:
“Si, voglio venire” gli ho detto.
Dopo cena, io e Detassis siamo stati portati fino a Vallesinella, “campo base” di tutto il Brenta, dalla vecchia campagnola del Celso Burrini, papà di Gino e Bruno, olimpionici di discesa libera a Cortina 1956.
Abbiamo iniziato, a notte già inoltrata, il sentiero verso il rifugio Brentèi, per poi proseguire verso la Vedretta d’Ambièz.
Il primo contatto con la neve e con la roccia ghiacciata è stato bellissimo ed emozionante, ma dopo quasi un’ora di arrampicata la mia emozione è svanita: erano restate solo le mani gelate e doloranti, massacrate dagli appigli rocciosi coperti di ghiaccio.
Non ho detto niente a Bruno, e ho continuato a salire in sofferente silenzio.
Lui sicuramente l’aveva “capito”: la sua freddezza, il suo assoluto tacere, il suo arrampicare tranquillo mi hanno dato più forza di mille possibili frasi di incoraggiamento.
Scavallata la bocca d’Ambièz, siamo arrivati al rifugio Agostini verso le 5 di mattina (3 o 4 pezzi di parmigiano reggiano con 2 bicchieri di birra). Un’ oretta di branda.
Tempo bellissimo con il primo fresco settembrino.
Un po’ di palestra di roccia con me’ fradèl Stefano (che allora era già un giovane istruttore della SUCAI di Roma) e due sgambate nella zona del rifugio.
Nel pomeriggio un saluto a Bruno Detassis che tornava a valle, un saluto alle sue scatarrate, alle sue fatidiche e ritmate raschiate di gola e alla sua pipa.
Prima di cena (polenta e crauti) due o tre canti della montagna.
Poi tutti a dormire, in una stessa grande camera con tanti letti: un po’ di chiacchiere a bassa voce, poi pian piano, nel buio, il silenzio…
Per ultima, la voce bassissima di Luciano èccher, che ha sospirato: ”…che bèle fèste òsti.”
***n.d.r
Luciano Eccher: “Chi era costui?”
1954: Il “Ragno dellle Dolomiti” Cesare Maestri e Luciano Eccher erano impegnati sul Campanile Basso, nella via Stenico-Franceschini, un VI grado, il massimo della difficoltà su roccia vera.
Cesare Maestri faceva da “primo”: Eccher, che lo seguiva, impegnato in un difficile traverso, volò, strappando via ben tre chiodi.
Maestri picchiò duro il capo contro la roccia per trattenere il compagno dalla fatale caduta.
Eccher rimase appeso nel vuoto:
“Taia Cesare, taia!”, urlò mentre calava ormai la notte.
Tradotto: taglia la corda e salvati almeno tu. Questo era Luciano Eccher.
Cesare,non ci pensò neppure a tagliare. Il salvataggio fu un’epopea resa immortale dalla penna di Dino Buzzati.
Nel 2007, nella chiesa di Cognola, la moglie e i figli di Luciano lo hanno accompagnato nella sua ultima arrampicata.
(g.f.p.)
Questa storia in poche righe mi ha fatto vivere la tua giornata. Ho percepito proprio il tempo del racconto: un epoca senza telefonini che trillano durante le ascese o app che ti dicono che tra un ora sarà meglio trovarsi al rifugio.
Che bèle storie da nossacan!