La prima secessione della plebe e l’apologo di Menenio Agrippa:
fu Montesacro o Aventino?
di Gianni Fazzini
- Il giuramento di Bolívar sul Montesacro (1805)
Negli anni dal 1803 al 1806, il giovane Simón Bolívar effettuò in Europa quel viaggio di istruzione, esperienze e conoscenze che, col nome di Grand Tour, i giovani di famiglie europee nobili e facoltose – soprattutto inglesi tedesche francesi – erano soliti compiere fin dalla metà del secolo XVIII. Fra le sue esperienze europee, il 26 maggio 1805 Bolívar ebbe anche occasione di assistere all’incoronazione di Napoleone nel Duomo di Milano, quale re d’Italia, ma il momento più esaltante e significativo del suo Grand Tour fu la permanenza nella “Eterna Città dei Cesari”.
In luglio Simón Bolívar[1] giunse a Roma in compagnia dei suoi compagni di viaggio: Simón Narciso de Jesús Rodríguez, che era il suo precettore e mentore (benché avesse solo quattordici anni più di lui) e il loro amico Fernando Rodríguez del Toro e Ibarra; i tre giovani venezuelani presero alloggio in una locanda di Piazza di Spagna e per varie settimane visitarono la città, di cui conoscevano bene la storia. Un giorno di agosto si avviarono lungo la Via Nomentana e, superato l’antico ponte che prende il nome dalla strada, sulla riva destra dell’Aniene si soffermarono sulla collinetta che venne loro indicata come il luogo in cui nel V sec. a.C. era avvenuta la prima secessione della plebe romana. Bolívar – sulla spinta di un viaggio affascinante e pieno di sorprese, consapevole delle tristi condizioni di mancanza di libertà in cui versava l’America Latina, sull’onda della giovane età (aveva ventidue anni), imbevuto di letture classiche, di romanità e degli spiriti del Romanticismo – si sentì emozionato al pensiero di trovarsi nel luogo che aveva visto l’inizio del riscatto della plebe e quindi, accostando idealmente la condizione di servaggio dei due popoli, il romano e il latino-americano, all’imbrunire del 15 agosto 1805 espresse proprio lì a Montesacro l’impegno solenne di combattere per la libertà della Patria dall’oppressione della monarchia spagnola, pronunciando le seguenti parole:
“¡Juro delante de usted, juro por el Dios de mis padres, juro por ellos, juro por mi honor y juro por mi patria, que no daré descanso a mi brazo, ni reposo a mi alma, hasta que haya roto las cadenas que nos oprimen por voluntad del poder español!”.
[Giuro davanti a voi, giuro per il Dio dei miei padri, giuro per loro, giuro per il mio onore e giuro per la mia patria, che non darò riposo al mio braccio, né tregua alla mia anima, fino a che non avrò spezzato le catene che ci opprimono per volontà del potere spagnolo!].
Simón Bolívar avrebbe tenuto fede al proprio giuramento!
Divenuto il capo militare delle forze sudamericane ribelli che si opponevano agli Spagnoli, con guerre condotte brillantemente liberò successivamente le odierne Colombia (nel 1819), Venezuela e Perù (1821), Ecuador (1822), Bolivia (1825) ma, anche a causa di alcuni suoi atteggiamenti ritenuti – non a torto – eccessivamente dittatoriali, non riuscì a mantenere uniti i popoli sudamericani in un’unica confederazione, come invece, per altro verso, erano riusciti a fare pochi decenni addietro i discendenti dei coloni inglesi in Nord America. Finì i suoi giorni a soli quarantasette anni, malato di tubercolosi, politicamente deluso e personalmente disilluso, ma sarebbe passato alla Storia come El Libertador, “Il Liberatore” del continente sudamericano.
L’impegno solenne da lui preso a Montesacro è noto laconicamente come el juramento, viene imparato a memoria nelle scuole di alcuni Stati del Sud America e anche Roma ha voluto degnamente ricordare tale evento. Infatti, il 15 agosto 2005 – nel 200° anniversario – sulla collinetta di Montesacro dove Bolívar aveva prestato il suo giuramento, in onore del Libertador e in commemorazione dell’avvenimento venne inaugurata una colonna moderna realizzata dall’artista Jorge José Castillo Casalderrey, su disegno e progettazione dell’architetto José Fructoso Vivas; inoltre troviamo larga traccia dell’evento nella toponomastica cittadina nel quartiere XVI Montesacro: è dedicato a Bolívar il parco in cui si erge il monumento-colonna, mentre è intitolata a Menenio Agrippa un’importante piazza situata in quei pressi. Va detto, in ogni caso, che a Simón Bolívar – condottiero e politico popolarissimo sia in Europa che nelle Americhe – Roma ha tributato altri riconoscimenti (un piazzale e un monumento, oltre ad alcune targhe onorarie) dei quali, peraltro, non ci occupiamo in questa sede [da: G. Fazzini, Le Colonne di Roma. Storia e leggende, Greco & Greco Ed., Milano 2017, pp. 270-6].
Può essere invece interessante trattare tutto un altro tema, connesso – più che all’eroico Libertador – al leggendario Menenio Agrippa.
- La prima secessione della plebe romana (494 a.C.)
Nel 494 a.C., stanca del prepotere politico patrizio, oppressa dagli usurai (anch’essi patrizi), stremata da alcune stagioni agricole di raccolti non favorevoli, la plebe romana era uscita da Roma e si era auto-isolata in secessione, decisa a non prestare più la propria forza lavoro, né a svolgere il servizio nell’esercito – le cui conquiste andavano ad esclusivo profitto della classe dominante – se non le fossero stati riconosciuti maggiori diritti politici, con la possibilità di intervenire nelle decisioni che riguardavano il governo e le leggi dello Stato Romano. Pertanto, intenzionati a staccarsi da Roma e a dare vita a un nuovo nucleo urbano e a un nuovo Stato, uomini, donne e bambini plebei si allontanarono dalla città con i loro carriaggi, sui quali avevano stipato quel poco che possedevano.
Questa prima secessione della plebe[2] durò parecchi mesi e gettò seriamente in difficoltà gli ottimati; a convincere i plebei a tornare in seno allo Stato Romano fu inviato Menenio Agrippa (da Tito Livio definito facundum virum) che, nel suo celebre apologo – una tipica narrazione con intenti morali, in cui vengono introdotti a parlare animali o cose inanimate – citò l’eventualità delle membra umane che a un certo punto si rifiutassero di servire lo stomaco e di cibarlo, poiché appariva essere l’unico beneficiario degli sforzi compiuti da tutte le altre parti del corpo, salvo poi accorgersi che i guai sopravvenuti allo stomaco stesso, si sarebbero ripercossi dannosamente sull’intero organismo: in questo modo Agrippa convinse la plebe del fatto che tutti loro, patrizi e plebei, erano organi e membra dello stesso corpo, ovvero la Res Publica Romana, e che era quindi interesse comune – di “tutti” – dare il proprio contributo per il bene della collettività. In realtà, al di là del semplice apologo, i plebei rientrarono a Roma perché ottennero alcuni fondamentali provvedimenti in loro favore come, tra gli altri, l’istituzione dell’importante magistratura dei Tribuni della Plebe i quali, in numero di due eletti ogni anno (come i Consoli), vigilavano su equità e diritti dei plebei e – a importante garanzia dell’efficacia della loro azione – si vedevano riconosciuta l’inviolabilità e la sacrosantità della persona (“…ut plebi sui magistratus essent sacrosancti,…”: Ab Urbe condita libri, II 33.1): chi avesse attentato alla loro vita avrebbe quindi commesso un grave crimine di Stato.
Peraltro, va detto a chiare lettere che questa pur severa disposizione non salvò la vita ai fratelli Tiberio e Gaio Sempronio Gracco (di estrazione patrizia e nipoti di Publio Cornelio Scipione Africano, ma sensibili ai problemi del popolino minuto di Roma) che, nella loro carica di Tribuni della Plebe, qualche secolo dopo Menenio Agrippa si sarebbero battuti per l’approvazione di leggi agrarie in favore delle classi più povere, rimanendo però uccisi in scontri di piazza fomentati dagli ottimati: Tiberio nel 133 a.C., Gaio nel 121 [da: G. Fazzini, Il giuramento di Simón Bolívar nella querelle tra Aventino e Montesacro, Natale di Roma MMDCCLXXI, in “Strenna dei Romanisti” 21 Aprile 2018, pp. 195-202].
- 494 a.C.: Aventino o Montesacro?
Per “aventinismo” si intende un “atteggiamento o metodo di opposizione politica basato sul rifiuto di ogni forma di collaborazione e quindi, quasi sempre, più velleitario che costruttivo” e, più in particolare, “nell’ambito politico, [una] forma di astensione dai lavori di un’assemblea, specialmente parlamentare, di un governo, di un partito, dettata soprattutto da opposizione o intransigenza morale, da motivi programmatici o come manifestazione di protesta”. Nella cultura di tutti i giorni, volendo indicare una secessione, scissione o separazione, si parla di “ritirarsi sull’Aventino”, non sul Montesacro: anche nel 1924, in Italia, l’uscita volontaria dalla Camera da parte dei deputati dell’opposizione, a seguito dell’uccisione di Giacomo Matteotti (avvenuta il 10 giugno), passò alla Storia come Secessione dell’Aventino. Quindi, nella cultura popolare, per indicare una secessione si usa parlare di Aventino e non di Montesacro. Eppure, nella toponomastica cittadina l’apologo di Menenio Agrippa lo si dà come se si fosse verificato sulla collinetta presso l’Aniene. Anche fra alcuni storici moderni, a parte qualche incertezza nelle date delle varie secessioni succedutesi nell’arco di due secoli – prima che si stabilizzassero i contrasti politici fra patrizi e plebei – ci si è posti il dilemma se, la prima volta, la plebe si sia ritirata sull’Aventino o sul Montesacro. Perché?
Secondo lo storico romano della seconda metà del II sec. a.C. Lucio Calpurnio Pisone Frugi – fonte attendibile e anche il primo a darci notizia di questo evento, sia pure oltre due secoli dopo l’accaduto, nei suoi Annales fr. 22-23 – i plebei in secessione si insediarono sull’Aventino, un colle che fronteggiava il Palatino (che era la sede dei patrizi) e sul quale si ergeva un Tempio di Diana (divinità tradizionalmente cara alla plebe) presso il quale esisteva per i plebei il diritto di un sicuro “asilo politico”, tale da salvaguardarli da ritorsioni o rivalse per qualunque atto avessero commesso: una simile opportunità era perfettamente giustificata dal fatto che il santuario aventiniano – fin dalla sua prima fondazione, risalente al VI sec. a.C. – era la sede politico-religiosa della comunità plebea. Lì, dove già avevano un consolidato riferimento ideologico, i plebei avrebbero potuto costituire una nuova entità statale, in conformità alle proprie leggi religiose ma, soprattutto, in contrapposizione alla Roma patrizia. Invece più di un secolo dopo, Tito Livio (che scrive alla fine del I sec. a.C., ovvero più di cento anni dopo il precedente autore), pur citando la versione di Pisone (con le parole Piso auctor est, in Aventinum secessionem factam esse), dal quale egli – essendo successivo – attingeva le proprie informazioni, collocò la secessione dei plebei, avvenuta per iniziativa di un certo Sicinio, “sul monte Sacro [che] era di là dall’Aniene, a tre miglia dalla città” (“…in Sacrum montem secessisse. Trans Anienem amnem est, tria ab Urbe milia passuum”…: Ab Urbe condita libri, II 32.3).
A questo punto viene innanzi tutto da chiedersi in che modo Livio fosse giunto a chiamare “monte Sacro” la collinetta sulla riva destra dell’Aniene; ciò era dovuto ai divinatori religiosi di Roma antica – gli àuguri e gli arùspici – che si recavano in quella zona ventosa e (a quell’epoca) lontana dalla città per interpretare, prevedere e vaticinare le sorti dell’Urbe: una simile pratica rituale era un tratto caratteristico del sentimento religioso che i Romani avevano derivato dagli Etruschi. La sacralità di questa collinetta era quindi di natura religiosa: l’odierno Montesacro, all’epoca, era quindi il “monte che era Sacro ad àuguri ed arùspici, tutti di estrazione patrizia”, ma non era collegato né sul piano politico né sociale – e neanche in altro modo – alla comunità plebea, come lo era invece l’Aventino che, invece, era proprio il “monte Sacro ai plebei”, perché costituiva la sede sacrale-religioso-politica dei plebei, così come il Palatino lo era per i patrizi. Pertanto, in quegli inizi di V sec. a.C., una secessione dei plebei sull’Aventino, presso il “loro” Tempio di Diana, avrebbe avuto maggiore giustificazione politica e significato sociale, che non l’allontanamento di intere famiglie, con anziani e bambini, con i carriaggi, gli animali e tutti i loro pur poveri averi, a tre miglia dalla città (una distanza tutto sommato non agevole, a quei tempi, per così tante persone, di varie età e condizioni fisiche), in un luogo che era definito “sacro” dai magistrati religiosi patrizi, che era ad essi riservato e sul quale officiavano le loro cerimonie religiose propiziatorie. Tra l’altro, per la sua particolare conformazione orografica, l’Aventino si prestava meglio del Montesacro sia ad una propria difesa, come anche ad un’azione di “disturbo” verso il vicino Palatino patrizio, che sicuramente rientrava negli intendimenti di una plebe che, per vari e giustificati motivi, era entrata in subbuglio!
Pertanto, mentre è sicuramente attestato che il giuramento di Bolívar avvenne effettivamente a Montesacro, nel parco a lui intitolato e lì dove oggi si erge la colonna in suo ricordo, non è possibile affermare con altrettanta sicurezza che la prima secessione dei plebei sia avvenuta sul “monte che era Sacro ad àuguri ed arùspici”, piuttosto che sull’Aventino “ad essi Sacro”, un’ipotesi – quest’ultima – largamente più attendibile.
[1] Appartenente alla piccola nobiltà spagnola nativa del Sud America, il suo nome completo era Simón José Antonio de la Santisima Trinidad Bolívar y Palacios de Aguirre, Ponte-Andrade y Blanco: per ovvi motivi tale titolatura onomastica compariva, peraltro sporadicamente, solo in qualche trattato politico che avesse il carattere della massima ufficialità.
[2] Sulla esatta cronologia delle varie secessioni della plebe romana non esiste alcuna univocità di opinione. In questa sede, per la prima di queste secessioni mi attengo alla cronologia del 494 a.C., largamente più diffusa tra noi storici.