Articolo di Marco Patriarca – Autore Ospite de La Lampadina
Ho risentito quel canto che canticchiavo tranquillamente da bambino. Faceva da sfondo alla rievocazione degli alpini sul Monte Grappa in un programma di RAI Storia.
È un canto che fa venire i brividi: “Ta-pum, Ta-pum Ta-pum… soldatino non farti ammazzar…” raccomandano amorevolmente alla giovane penna nera, la madre, il padre e la fidanzata. Il cannone tuona mentre le granate gli piovono intorno … Ta – Pum – Ta – pum Ta – pum. (Ascolta Ta Pum cantata da mille cori nell’arena di Verona).
Dopo un secolo quel canto alpino eseguito in una chiesa, in una sala o all’aperto da uno dei fantastici nostri cori può far inumidire irresistibilmente gli occhi. Poi, alle prime note dello Stelutis Alpinis, “Si tu vens cà su tas crétis,” note che il friulano Arturo Zardini fa nascere dal nulla, molti, pur così lontani da quegli eventi, cominciano a sentir un lieve groppo in gola. (Ascolta il Coro della Brigata Julia).
Pochi minuti di quello spiritual alpino bastano per cancellare momentaneamente tutto ciò che di terrestre occupa la mente, lasciando l’anima interamente allo scoperto. Come negli spirituals dei neri americani molti di questi canti non hanno moniti o invettive, lanciano semplicemente messaggi ai vivi” …mi hanno sotterrato in una terra ricoperta di stelle alpine – canta il giovane marito e … …quando a ciàse tu es sola e tu preis par mi il mio spirto intor ti svole, jo e la stele sim cun te” Forse per questo gli italiani che non hanno mai molto amato le divise militari, e rispettato solo quelle dei carabinieri, quella degli alpini è la sola che susciti in noi qualcosa che assomigli all’amore.
Quei canti raccontano che fra le la ferocia degli eserciti, le devastazioni delle città e le crudeltà verso le popolazioni, è bello pensare che vi fosse anche un’altra guerra: la guerra degli alpini; non meno dura ma più umana. Forse non era così. Quella era la cosiddetta guerra moderna e non aveva più nulla di umano né di romantico: niente brividi degli hurrah e delle cariche di cavalleria; il fronte avanzava di pochi metri per volta; si combatteva in trincea dove gli uomini erano talpe nascoste nel fango che guardavano in terra e che si trasformavano in volpi prima di salire strisciando in superficie ed essere potenzialmente falciati a migliaia dalle mitragliatrici nemiche. L’estetica della guerra, prima vagheggiata da romantici, intellettuali rivoluzionari, avanguardisti e futuristi era andata subito in pezzi.
Dopo la pace si misero al lavoro i grandi narratori, come Remarque, Musil o Gadda, raccontarono storie drammatiche; e centinaia di poeti, fra cui Ungaretti, Verhaeren o Sassoon, scrissero alcune alte poesie, alcune gloriose, altre evocative ed eroiche, molte retoriche. Ma i popoli del dopoguerra erano smarriti; nella realtà tutti avevano perso; e il tacere di quelle macellerie era divenuto per tutti una necessità. Per oltre mezzo secolo il canto popolare degli alpini è restato l’unico sentimento popolare delle Grande Guerra. Non era una semplice testimonianza o la rievocazione di quei terribili avvenimenti; quei canti hanno rivestito quelle tragedie di una poesia umana universale con note le parole semplici e famigliari della nostra gente che fanno parte del nostro mondo. Chiunque le abbia udite, in qualsiasi angolo della terra, ancora oggi non può restarvi indifferente, come testimonia il continuo successo delle innumerevoli missioni musicali dei cori alpini negli Stati Uniti e in Argentina.
Grazie Marco Patriarca, per il meraviglioso e commovente articolo sugli Alpini ed il loro Stelutis Alpinis.
Mio Padre era della Julia, ha fatto la Campagna di Russia ed io sono cresciuta nel “culto” di quel Corpo, di quei valori ed in casa mia c’é un cappello d’Alpino, non il suo perché se n’é andato con lui, appoggiato sullo scaffale con le riviste “Gli Alpini”.
Grazie di ricordare , di apprezzare e di farci meditare.