Articolo di Nicoletta Fattorosi Barnaba – Autore Ospite de La Lampadina
Cari lettori, oggi vi propongo una passeggiata in un “paese” di Roma, non andiamo for de porta perché per paese intendo una parte della città stessa, nel caso specifico una delle zone più antiche e romane di Roma, conosciuta come il Velabro, che si trova intorno alla chiesa di San Giorgio.
Due storici di Roma, Pietro Paolo Trompeo prima e Manlio Barberito dopo, nel secolo scorso, hanno ricordato come fosse caratterizzata la nostra città da queste particolari zone, che si trovano nei rioni storici, definite paesi o paesetti proprio per la loro vita legata a questi territori limitati che, dice il Trompeo in un suo scritto, sono luoghi: “… dove tutti si conoscono, dove le donne si incontrano ogni giorno al mercatino locale, gli uomini all’osteria e i ragazzi al caffè o al biliardo….Il “paesetto”…è una circoscrizione tutta ideale, intima e affettuosa.”
Il Velabro, ricco di memorie e di leggende, è nel cuore dei romani, perché proprio in questa zona, sotto al Palatino, si arenò la famosa cesta con dentro i due gemelli Romolo e Remo. Così racconta Pascarella: “ … povere anime innocenti!,/nu’ li messero drento in un cestino/navigabile, in mezzo a la corrente/de fiume, pe’ mannalli a Fiumicino?/Ma volle er caso fortunatamente/…che se fermorno/Immobili in mezzo a la mollaccia./E lì volle er destino de la sorte/Che ‘na lupa che stava de lì intorno/Je diede er latte e je sarvò la morte.”
Velabro era la concavità che dal Foro Romano giungeva al Tevere, da questo spesso alluvionata (anche perché si trovava sotto il livello del fiume) e resa perciò paludosa, alimentata dal ristagno delle acque dei ruscelli, che scendevano dai colli circostanti e dal trabocco del Tevere. È infatti questa l’origine del nome “velabrum” dato alla zona ed al fiumiciattolo d’acqua che attraversava la valle del Foro Romano. Deriva dalla parola latina “velus”, cioè “palude”. L’esigenza di una bonifica si sentì già in età monarchica, quando, da parte dei Tarquini, si canalizzarono le acque nella Cloaca Maxima, ancora oggi funzionante, situata sul lato della strada di fronte alla chiesa di San Giorgio.
Il Velabro era un quartiere a carattere commerciale e industriale, attraversato da due strade molto importanti, il vicus Tuscus e il vicus Iugarius che collegavano il Foro Romano con il Tevere. La zona mantenne la sua funzione commerciale fino al VI secolo. Fu cristianizzato e vi si insediarono istituzioni ecclesiastiche ed assistenziali, come le chiese di San Teodoro (titolo cardinalizio) e di San Giorgio in Velabro (diaconia). Poco dopo il toponimo si era modificato in Velum Aureum e tale rimase per tutto il medioevo.
Dal VI secolo la riva del Tevere che si trova da questa parte fu detta Ripa Graeca, intendendo per greci gli abitanti dell’oriente bizantino. Tra il VII e l’VIII secolo, infatti, ai tempi della dominazione bizantina, si stabilirono a Roma monaci greci fuggiti a causa della lotta iconoclasta, il movimento religioso sorto nella chiesa bizantina contraria ad ogni forma di culto delle immagini sacre e propugnatore della loro distruzione. Qui i monaci scampati alle persecuzioni iconoclaste avevano fondato le diaconie, vale a dire ospizi per pellegrini, poveri e malati. Nel corso del tempo, quelle diaconie si sarebbero trasformate in edifici di culto, o inglobate nelle chiese già esistenti che sarebbero state intitolate a santi orientali. Fu aperta anche la schola graeca, che si trova dietro a Santa Maria in Cosmedin, fulcro della comunità orientale, il cui nome evoca proprio la bellezza dell’edificio, dal greco (κόσμιον) kòsmion=ornato.
Tra le diverse chiese quella di San Giorgio la cui pianta, assai irregolare, è la testimonianza di una fabbrica sviluppata per aggiunte e trasformazioni succedutesi in varie fasi storiche. La chiesa di San Giorgio in Velabro si trovava, in quell’epoca, al centro di una zona frequentata da funzionari, mercanti e milizie bizantine.
Risale forse al VI secolo, è stata detta in Velabro perché fa riferimento alla zona. Nel XIII secolo alla chiesa fu aggiunto il campanile a quattro piani di trifore e il portico con quattro colonne a capitelli ionici. Numerosi furono i restauri alla quale, nei secoli, la basilica fu soggetta, anche per il ripetersi di allagamenti dovuti, come già detto, al fatto che è situata sotto il livello del fiume. Dopo l’attentato del 1993, quando un’auto bomba fece saltare il portico antistante la chiesa, il successivo accorto e meticoloso restauro ci ha ridonato un bene artistico, che sembrava perso per sempre.