La Lampadina/Archivi di famiglia/Racconti – Il diario di Giorgio Crainz

Grazie Lampadina!
Molti leggono La Lampadina e proprio qualche mese fa un lettore mi ha scritto chiedendomi se ero parente di Giorgio Crainz; in effetti è mio zio, uno dei fratelli di mio padre.
Il signore era venuto a conoscenza che tra il settembre 1943 e il maggio 1945 zio Giorgio era in prigionia in Germania e aveva tenuto giornalmente un diario.
Il diario era scritto su piccoli foglietti che poi saranno trascritti molti anni dopo. Al rientro in Italia lo zio non amava ricordare questo suo periodo in campo di concentramento.
Ora il diario, GRAZIE alla Lampadina, sarà pubblicato e intanto noi oggi possiamo farvi leggere l’introduzione di Guido Crainz, docente di storia moderna, grande scrittore nonché mio cugino.
Il caso vuole che da giovane sia stato ospitato da zio Giorgio, lui residente a Udine ma universitario a Roma, un po’ attivo in “Lotta Continua” era per questo ricercato..
Lucilla Crainz

Questa è la presentazione del diario da parte di Guido Crainz

Ho letto per la prima volta questo diario negli anni ottanta: prima ne ignoravo proprio l’esistenza, e a quel che ne so Giorgio e la moglie Adriana, che lo trascrisse a macchina, non ne avevano parlato con nessuno o quasi. Sembrerebbe una anomalia se non venisse subito in mente una storia al tempo stesso analoga e diversa, quella di Alessandro Natta. Come è noto, il colto leader comunista (aveva frequentato la Normale di Pisa) negli anni cinquanta non pubblicò la sua storia/testimonianza sugli internati militari (e la pubblicò solo negli anni novanta: L’Altra Resistenza, Einaudi). Gliela aveva bocciata la casa editrice del Pci perché nella cultura di quel partito la Resistenza degli internati militari non era vera Resistenza (e Natta accettò di chiuderla in un cassetto). Non fu solo comunista, quella rimozione -Giorgio certo non lo era, né lo erano i suoi parenti o i suoi amici-, fu molto più generale. Quasi si trattasse di una storia di serie B o C. Quella rimozione fu rotta molto tempo dopo –negli anni Ottanta, appunto- dal riemergere della tragedia di Leopoli, ove 2000 militari italiani furono massacrati dai nazisti: si aprì solo così, con molta forza, la discussione pubblica sui seicentomila internati militari che preferirono la prigionia tedesca all’adesione a Salò. Non fu solo una “liberazione della memoria”, fu la riparazione molto tardiva di un torto collettivo, e Giorgio la visse molto intensamente. Questo divenne allora, per un tempo non brevissimo, il tema più importante delle nostre chiacchierate: Giorgio voleva capire davvero perché quella rimozione vi fosse stata (fu allora che decise di rendere “leggibile” questo diario e  lo inviò anche al meritorio Archivio di Pieve Santo Stefano).

Commuovono per molti versi queste pagine, in primo luogo per le difficilissime condizioni in cui furono scritte: a matita, su piccolissimi foglietti, e con “alcuni periodi scritti usando lettere dell’alfabeto arabo per la eventualità di una confisca da parte tedesca” (è Giorgio ad annotarlo).    Devo aggiungere che alla prima lettura di queste pagine capii molto meno di quanto capisca ora, aiutato anche  da quel grandissimo libro che è Una guerra civile, Saggio sulla moralità della Resistenza di Claudio Pavone, pubblicato nel 1991, e dalle più generali riflessioni e ricerche che vi sono state da allora sulla “Resistenza civile”: cioè sulle molte e differenti forme di quella “Resistenza non armata” che fu un versante multiforme e decisivo  non solo della Resistenza ma della più generale “riconquista di dignità” di un Paese. Non di tutto il Paese, non di tutti: all’indomani dell’8 settembre del 1943 Ada Gobetti, delusa dalla mancata reazione popolare all’occupazione tedesca, fustigava con amarissima ironia la “rassegnata stanchezza indomita del popolo italiano”. E Luigi Meneghello, in quello splendido libro che è I piccoli maestri, annotava con ironia altrettanto amara che molti suoi commilitoni “si astennero severamente dal parteggiare”. Il diario di Giorgio ci aiuta a capire i moltissimi che decisero invece di opporsi, nelle forme in cui era possibile farlo. E anche Giorgio prende progressivamente atto –di nuovo, con grande amarezza- che non pochi, progressivamente, si “astennero dal parteggiare”: o meglio, accettarono di subire, di perdere dignità. Non fu certo la scelta di Giorgio, e mi sembra di risentirne la voce e il tono nella annotazione che fa subito, il 13 settembre del 1943: “escludo la possibilità di combattere ancora a fianco dei tedeschi”. Una decisione ispirata e confortata non solo dal suo rigore ma da tutto quel che vede: nell’Italia che attraversa da prigioniero e poi nel primo campo in cui viene rinchiuso come Krieggefangene.  Qui agli ufficiali viene chiesto di arruolarsi nelle SS e Giorgio annota: “se allo scioglimento dell’adunata non avessi già preso la mia decisione questa mi sarebbe stata suggerita dagli occhi dei soldati davanti ai quali sfiliamo per rientrare al recinto”. Il 3 ottobre si profila poi la possibilità di ritornare in Italia per combattere nelle fila della Rsi e Giorgio riassume il suo stato d’animo e il suo pensiero senza retorica, senza illusioni e senza infingimenti: “all’oscuro come siamo degli avvenimenti è impossibile prendere una decisione (…) dato che la puzzonata ormai è fatta, interesse dell’Italia è che tutti gli italiani aderiscano al governo di quel fesso di Badoglio e combattano contro i tedeschi. Sicuramente Badoglio dichiarerà guerra alla Germania e chissà che non si riesca a salvare qualcosa e forse anche l’onore, potendosi sostenere che alleato della Germania era Mussolini e non il popolo italiano”.  Giorgio si è incamminato così su una via che ribadisce subito: “anche se esiste un Governo repubblicano fascista, esiste più di nome che di fatto. Mussolini e gli altri non possono che essere dei burattini nelle mani dei tedeschi”. Da questa via non si allontanerà mai, in una prigionia in cui la fame e le pessime condizioni di vita occupano progressivamente le giornate: con il bisogno estremo di aiuti dalla famiglia, ma anche con il timore di imporle sacrifici troppo gravosi. La fame, protagonista assoluta: ce lo ricordano quelle ricette di cui parla di continuo con altri detenuti e che scrupolosamente trascrive (per poi dimenticarsene subito, naturalmente, all’indomani della liberazione). Oltre alla fame, il freddo, i pidocchi, vi sono anche opposti e generosi “compagni” nella sua prigionia: i libri in cui trova rifugio, a partire dal Don Chisciotte e da molti altri (e si veda la gioia con cui apprende che il fratello Vittorio, a Roma, gliene ha comprati moltissimi: in piena guerra).

   Scorrendo queste pagine sembra quasi che la fame e gli altri enormi disagi della prigionia rafforzino anziché scalfire la scelta di fondo fatta nei primi giorni. Una scelta fatta, per usare parole di Jean-Paul Sartre, “in quella responsabilità totale e in quella solitudine totale che è la rivelazione stessa della nostra libertà”. Non pesano tanto, in quella solitudine, le opposte scelte di un numero crescente di suoi commilitoni, e anche di qualcuno che non si aspettava: pesa, e pesa enormemente, il non sapere cosa pensano i suoi genitori. Non è più un ragazzino, Giorgio –è nato nel 1915- ma il 6 gennaio del 1944 “dichiara”, quasi disperato: “se non da mio Padre, ma da mia Madre stessa, che è una Madre”, mi venisse l’indicazione di aderire a Salò pur di rientrare in Italia “non fiaterò più (…) significherà infatti che il nostro dovere è quello. Ma sono sicuro del contrario, benché all’oscuro di tutto”. La risposta al “quesito famoso” arriva pochi giorni dopo: “Non poteva essere diversa! Ne ho moltissimo piacere. Sono fiero della mia famiglia” (e lo amareggerà, più tardi, il dissenso che sente nel fratello maggiore, Franco: “lui non comprende me e io non comprendo lui. Ognuno di noi è troppo all’oscuro della situazione in cui si trova l’altro”).

  Si legge con emozione, anche, il “racconto” dei momenti simbolici e collettivi di opposizione a Salò; e di ribadita fedeltà alla monarchia, e sia pure una monarchia che l’8 settembre aveva dato pessima prova di sé. Era comunque l’Italia, quella monarchia, ed era all’Italia che bisognava essere fedeli. Gridano “viva il re” gli ufficiali e i soldati che respingono la proposta di arruolarsi a Salò, nel novembre del 1943, e “nella camerata viene intonato il Piave, accompagnato da mandolini”. Si legga la testimonianza di Claudio Pavone sul momento in cui Leone Ginzburg viene prelevato nel carcere di Regina Coeli dal plotone nazista che lo porta alla morte: “qualcuno da una cella vicina cominciò a fischiare l’inno del Piave: era un fischio limpido e sicuro. I tedeschi certo non capirono, gli italiani si commossero, Leone fu portato via”.

    Esclusa subito, come sé visto, l’ipotesi di tornare in Italia a combattere con i tedeschi e con Salò, il nodo della scelta si ripropone per la possibilità di accettare o meno le proposte di lavoro in Germania. Proposte che possono aprire scenari molto meno duri di quelli dei campi di prigionia, ma che non devono essere accettate, nell’intransigente orizzonte etico di Giorgio, se possono contribuire allo sforzo bellico tedesco. Certo, i lavori che non aiutano quello sforzo non sono molti, e non si sorrida di fronte ai distinguo che scorrono sulla pagina: Giorgio stesso si chiede se la distinzione di fondo non sia “troppo sottile e capziosa (…). Non riesco assolutamente a prendere una decisione. Ho letto le Epistole di Orazio”. I libri, di nuovo, nei momenti più difficili.

Il lettore “scoprirà” da sé i molti risvolti e le molte sfaccettature del diario e il suo stesso interrogarsi sul passato fascista del Paese, ma vorrei concludere con le annotazioni del giugno del 1944, quando la notizia della liberazione di Roma lo induce alle prime proiezioni verso il futuro. “Da un paio di giorni mi sento piuttosto ottimista: chissà che per qualche miracolo (sarebbe infatti cosa del tutto illogica) il popolo italiano non si riveli maturo per un regime liberale e che rifiorito il benessere individuale, il sentimento nazionale, non più stimolato dal fascismo, spontaneamente si manifesti?!” E prosegue: la cosa principale è che la gioventù si liberi da quell’“assoluto disinteresse per la cosa pubblica cui il fascismo l’ha portata”. E’ questo “il vero, forse l’unico, perlomeno il principale passivo nell’eredità lasciata dal fascismo”, e solo liberandosene possiamo ridestare “le nostre antiche virtù”. È la stessa idea di fondo che troviamo in una delle più belle lettere di condannati a morte della Resistenza, quella del giovane partigiano emiliano Giacomo Ulivi: una “diseducazione ventennale”, scriveva agli amici, ha intaccato “la posizione morale, la mentalità di molti di noi. Credetemi: la cosa pubblica è noi stessi (…) la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, ogni sua sciagura è sciagura nostra”. Mi ha emozionato trovare questa consonanza nel diario di zio Giorgio.

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