Articolo di Nicoletta Fattorosi Barnaba, Autore Ospite de La Lampadina
N.d.R.: questo articolo era programmato per l’uscita di aprile 2020 quando ancora non avevamo deciso di fare un numero della newsletter dedicato al periodo che stiamo vivendo, molto “particolare” e credo unico per la maggior parte di noi.
Rileggendo il pezzo di Nicoletta Fattorosi Barnaba, mi sono resa conto di come ci descriva un mondo come era “prima”: prima di internet e dei social, prima della globalizzazione, prima dell’ineluttabile perdita di contiguità fisica e psicolgica con i nostri vicini, coinquilini, cittadini.
Mi è parso uno scritto più che attuale, ci racconta ciò che abbiamo perso nella nostra corsa in avanti, ci dice che forse, qualcosa la possiamo recuperare, se facciamo tesoro di ciò che terribile e meraviglioso sta accadendo a tutti noi.
Con questo articolo vorrei accompagnarvi in una Roma sparita, portarvi a “vedere” la vita che si teneva in alcuni vicoli che hanno mantenuto il nome, ma che certo hanno perso la loro caratteristica di una vivacità di tempi ormai andati. Tempi certamente difficili, ma che avevano una caratteristica importante, la socializzazione e il vivere insieme con il poco che si riusciva ad avere.
Oggi per, “vicolo” intendiamo una strada stretta di città, in cui scarsa è la grande circolazione. In realtà, nel passato il vicolo costituiva una sorta di prosecuzione della casa, spesso ristretta e oscura. La gente viveva molto nel vicolo, dove tante famiglie finivano per costituire una sorta di villaggio, il cosiddetto “vicinato”. Questa realtà è pressoché scomparsa, perché molte stradine delle zone più tipiche sono state distrutte dalle demolizioni del periodo umbertino e di quello fascista. L’ultimo colpo a questa solidarietà di vicinato è stato inferto dalla televisione che ha chiuso le persone davanti ai singoli televisori di casa, senza più interessarsi a quanto accade fuori delle mura domestiche.
Andiamo a vedere cosa succedeva prima che Roma divenisse la capitale d’Italia.
Le donne scendevano con la sedia e si sedevano davanti alla porta di casa a pulire le verdure, a cucire, a rattoppare, e portavano i bambini con loro, i più piccoli nel girello di bambù, spesso fatto dalle abili mani del nonno, o comprato, dietro piazza Navona, in via dei Cestari.
Quando pioveva, la strada diventava un rivolo di acqua e fango, che le donne avrebbero rimosso, subito dopo, per rendere più vivibile quell’esterno-interno o meglio quella prosecuzione di casa, che era il vicolo. Vivere qui era quasi una necessità perché le case erano anguste e con poca luce, inoltre gli abitanti erano sicuramente in eccesso rispetto alla recettività di quelle dimore. Perciò il sole, anche se penetrava diagonalmente e per poche ore del giorno, permetteva di vivere un po’ meglio e in compagnia.
Case in cui le scale erano impervie, per via degli scalini troppo alti e allora soprattutto le donne non più giovani si affacciavano alla finestra per chiamare il venditore che passava sotto casa, quando era ambulante oppure richiamava l’attenzione del gestore del negozio nel vicolo, calava il cestino con la lista della spesa, lo ritirava con quanto le serviva, lo faceva riscendere con i soldi richiesti e lì finiva la spesa giornaliera. Le finestre di queste case erano le protagoniste di questa vita scomparsa, non solo si faceva la spesa, ma vi si stendevano i panni, si guardavano i bambini che giocavano e si chiacchierava. Torniamo alle donne attrici principali di questo spaccato di vita romana.
Verso le undici della mattina si sentivano voci femminili che cantavano, le note arrivavano in strada dalle finestre delle cucine, dove si cominciava a imbastire il pranzo. Finestre abbellite di vasi di basilico, salvia, maggiorana, insomma un piccolo orto casalingo, che permetteva alle donne di carpire le foglie odorose, e se si affacciavano contemporaneamente due dirimpettaie tra una chiacchiera e l’altra, si rimandava il momento del “battuto”. Parola ormai scomparsa nel lessico della nostra città, si tratta, forse sarebbe meglio dire si trattava di mettere lardo, cipolla, odori, alternativamente sulla battilonta, modo di dire romanesco, per indicare il tagliere. Dopo aver scaldato la lama del coltello, per meglio unire i vari ingredienti, li tagliavano con foga e li sminuzzavano finché non veniva fuori il “battuto” che messo nella casseruola con il pomodoro poteva servire per pasta, fagioli, patate e ottenere la succulenta “minestra col battuto”. Ricordo che fino agli anni ’50 del secolo scorso la minestra era il primo piatto dei romani!
A questo punto il vicolo si riempiva di un profumo inequivocabile che dava l’allerta anche agli artigiani, che avevano lì la loro bottega, li avvertiva che l’ora del pranzo si avvicinava, così il lavoro pesava di meno. Al suono delle campane del mezzogiorno si univa il profumo che esalava dalle casseruole delle cucine romane, tra poco ci si sarebbe incontrati tutti davanti alla tavola per gustare i cibi, ma anche e soprattutto per ritrovarsi in famiglia e raccontare della mattina appena trascorsa.
La pastasciutta (fettuccine fatte in casa senza brodo) era il primo piatto della domenica.
Alla sera il rito si ripeteva, minestre varie e saporite come minestre in brodo, di carne o vegetale, minestra col battuto, pasta e fagioli, riso e fagioli, minestrone di verdure, pasta e lenticchie, riso e lenticchie si portavano fumanti sulle tavole delle famiglie romane.
Ormai le famiglie erano in casa, tutto era tranquillo i bambini erano a letto, ma le chiacchiere tra le donne non erano ancora finite, si facevano non più nel vicolo ma alla finestra, lo spazio tra una casa e l’altra era esiguo e allora ecco che le comari si ritrovavano in una sorta di salotto aereo a cui spesso si aggiungeva qualche chiacchiera di passanti. Roma era così un paese divenuto capitale.
Grazie Nicoletta. Bel articolo.
Un quadro variopinto, delicato,vivo e commovente chissà che serva a ritrovare gesti e parole perdute! Grazie Nicoletta!