Articolo di Lalli Theodoli
Stiamo uscendo cautamente da un periodo di enormi difficoltà.
Chiusi in casa, fra quattro o mille mura, ma chiusi. A volte lontani da affetti e affari. Lavori bloccati, enormi preoccupazioni per il futuro. Perdite di persone care scomparse senza saluti.
Ognuno ha reagito in modo diverso. Chi, attaccato a Netflix e You Tube, ha fatto indigestione di conferenze e di mostre, chi di filmini. Ci siamo affogati di messaggi di ogni genere, drammatici o spiritosi: troppi, a volte. Poi, piano piano, abbiamo rallentato le comunicazioni, ci siamo lentamente quasi abituati alle poche uscite necessarie ed allo stare molto da soli. Ci si incontrava nelle strade, rari nantes in gurgite magno, e si deviava il percorso per sorpassarci da lontano. Un saluto con il braccio per ovviare al sorriso coperto dalla mascherina.
Ai primi permessi ”Attenti però altrimenti torniamo alla fase 1!”, abbiamo barato con gli affetti stabili (che diamine di documentazione occorrerebbe?) e con i parenti fino al settimo grado (ma chi sarebbero).
Alla libera uscita poi è successo un po’ di tutto.
Una esplosione. I navigli pieni, il lungomare di Napoli un formicaio. Famigliole, non paghe della lunghissima convivenza escono finalmente tutti insieme, i bar hanno tirato fuori sedie e tavolini a debita distanza. Padri sfrecciano in monopattino con un bambino felice a bordo. Incosciente!
Alcuni, privi di mascherine, parlano parlano, altri strisciando i muri con i volti coperti e i guanti si ritraggono invece da questa folla, impauriti per la loro salute. Hanno fatto grandi sacrifici per mesi, da soli, con la spesa fuori dalla porta, ed ora non vogliono rischiare per questi insubordinati che pare non vogliano tener alcun conto delle ordinanze.
Si rintanano al più presto nelle quattro mura che li hanno protetti per questi mesi. Non hanno nessuna voglia di camminare finalmente nel parco, di percorrere la città, un pò più viva finalmente. Vedere qualche amico? Sì con calma, a distanza, all’aperto. A casa troppo pericoloso. Ci sentiamo la settimana prossima.
E cosi scopriamo che subdolamente siamo stati colpiti dalla “Sindrome della Capanna”. Mai sentita prima. Una delle tante cose nuove che questa pandemia ci ha insegnato. Insieme all’uso frequentissimo di distanziamento sociale, pregresso, asintomatico, virale.
Cos’è? In parole povere, ci saremmo abituati a vivere chiusi, mentalmente e fisicamente, per cui ora l’affrontare di nuovo la vita creerebbe enormi ansie e preoccupazioni. Non si ha il coraggio di ricominciare un’attività che certo ha mille interrogativi, non di riaffrontare una vita sociale, a cui ci siamo disabituati e che rimandiamo con mille piccole scuse. Una forma di particolare depressione da abitudine a cui occorre assolutamente reagire.
Ed allora ne esce che coloro che hanno affollato le nostre piazze e le strade, con uno scoppio di entusiasmo vitale, sono fondamentalmente più sani che incoscienti. Che questo, senza esagerare, è il modo giusto per ricominciare a vivere. Che questo morbo terribile ha tagliato le gambe a molti, ma non è riuscito a togliere a tutti la voglia di ricominciare a vivere, a lavorare, a vedere gente.
Per cui, certo con enorme attenzione e le precauzioni che oramai conosciamo a menadito prendiamo esempio. Non hanno tutti i torti.
Grazie Lalli. Mi hai dato la spinta necessaria.