Articolo di Giuseppe de Vergottini, Autore ospite de La Lampadina
Con l’8 settembre 1943 si dissolve l’organizzazione statale italiana. Tutti ricordano gli avvenimenti di quei giorni che hanno visto l’occupazione tedesca del territorio italiano al centro e al nord mentre gli alleati risalivano la penisola da sud.
Nella Venezia Giulia, regione al confine orientale con una forte componente etnica croata e slovena, vi fu un tentativo dei partigiani jugoslavi di prendere il controllo del territorio aiutati dal movimento comunista clandestino in cui confluivano anche se in misura limitata elementi italiani delle zone interessate. Per circa un mese i partigiani non incontrarono praticamente ostacoli: introdussero un regime comunista accompagnato da una estrema violenza verso la popolazione italiana. Vi fu la prima ondata di uccisioni caratterizzata dal feroce metodo di infoibamento nelle cavità carsiche della regione. Furono eliminate le persone che potevano essere considerate come rappresentative delle comunità italiane. Dall’inizio di ottobre i tedeschi iniziarono l’annientamento delle bande partigiane e conquistarono rapidamente il territorio non risparmiando azioni violente anche contro la popolazione civile. Dopo le tre settimane di occupazione da parte dei partigiani comunisti jugoslavi c’è stata quindi la riconquista del territorio da parte dei tedeschi e la ricostituzione di una parvenza di autorità italiana, anche se sotto forma di protettorato tedesco.
Il dramma delle foibe, seguito dalle prime riesumazioni, in tutta la sua tragica evidenza già era presente nel periodo che va dalla fine ottobre all’inizio novembre del ’43 quando furono recuperati i resti di circa seicento vittime, quasi tutte civili.
È seguito un periodo di un anno e mezzo di feroce guerriglia fra tedeschi e italiani, da una parte, e partigiani, dall’altra e al termine della guerra si ebbe la seconda fase della eliminazione fisica degli italiani. Infatti a partire dal maggio 1945, si è avuta la resa finale dei conti in cui continuava la politica della eliminazione di chiunque fosse considerato collaborazionista o semplicemente di ostacolo alla annessione alla Jugoslavia di Tito. In questa fase intervenne anche l’eliminazione dei comitati di liberazione formati da italiani, a dimostrazione della sistematica prevalenza del proposito annessionista jugoslavo. Qui il numero delle vittime, pur essendo di difficile quantificazione, include migliaia di persone coinvolte in esecuzioni sommarie, deportazioni in campi di concentramento, carceri. Per un totale che viene stimato di 10.000/12.000 persone. Su questa contabilità esistono sia stime riduttive che stime che aumentano sensibilmente il numero.
Il clima di paura causato dalle sparizioni, deportazioni, sopraffazioni di ogni genere da parte del potere jugoslavo ha spinto la popolazione autoctona ad abbandonare il territorio giuliano. Quale quindi la motivazione dell’esodo di massa? La risposta più immediata è una sola: la paura, la perdita della sicurezza, il clima di intolleranza che rendeva sempre più gli italiani estranei nel loro territorio storico. Ci sarebbe anche da sottolineare l’effetto che ebbe l’attacco alla religione e al clero. Fu messa in atto una violenta persecuzione del clero cattolico, con quaranta sacerdoti uccisi e l’aggressione del vescovo di Capodistria del ’47. Alcuni di questi delitti tutt’oggi impuniti furono compiuti anni dopo la fine della guerra e dopo il trattato di pace fino alle soglie degli anni Cinquanta del secolo trascorso.
Ci sono stati, si ricorda, 350.000 esuli, anche se altre stime prudenzialmente si attestano su numeri più contenuti parlando di 270.000. Quello che sappiamo con certezza, perché ce lo dicono le stesse statistiche jugoslave, è che l’83% (ma da Fiume e da Pola si è giunti al 90%) della popolazione italiana se n’è andata. Per la prima volta nella storia dell’alto Adriatico il cambio di regime nei territori è stato accompagnato dalla radicale modifica della bilancia etnica, a differenza di quanto era avvenuto al cessare della sovranità veneziana alla fine del diciottesimo secolo e di quella asburgica nel 1918.
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È possibile spiegare quale sia stata la molla che provocò le stragi delle foibe e l’esodo degli italiani dalle proprie case?
Secondo una versione sostenuta in passato e ancora oggi prospettata da alcuni storici di parte slava l’insurrezione del 1943 sarebbe stata provocata dal desiderio di rivalsa e di vendetta del proletariato slavo per un trattamento forse non troppo rispettoso da parte dagli italiani nel periodo fascista. Si sarebbe trattato di una vendetta per torti subiti. Questa lettura dei fatti può fare comprendere alcune situazioni ma non tiene ad una analisi spassionata. Soprattutto non vale per quanto avvenne dal maggio 1945 in avanti (addirittura fino agli anni Cinquanta) quando è stata la famigerata OZNA, la polizia politica del nuovo potere popolare che ha praticato ogni sorta di violenze, tutte reali e documentate.
A parte la tesi della rivolta contadina spontanea contro i proprietari terrieri, le ragioni profonde che hanno spinto al terrore e quindi all’esodo vanno trovate nell’odio etnico scaturito dallo sciovinismo soprattutto croato e nella applicazione dei programmi annessionistici voluti dai comunisti jugoslavi.
Per quanto riguarda i propositi dei nazionalisti slavi bisogna ricorda come fosse presente, al momento della occupazione del territorio italiano, il vecchio proposito di cacciare gli italiani per sostituirli con popolazioni slave. In pratica si intendeva portare a termine il proposito di slavizzazione del territorio già completato in Dalmazia nei decenni precedenti grazie alla politica voluta dagli Asburgo, favorevole agli slavi, intesa ad eliminare gli italiani considerati ostili all’Austria. Politica che nei fatti veniva confermata dal trattato di Rapallo che dopo il primo conflitto mondiale assegnava la Dalmazia alla monarchia jugoslava (con l’eccezione di Zara).
C’è stato poi un proposito politico lucido diretto a provocare l’abbandono del territorio da parte degli italiani. Il Potere popolare e l’OZNA, la sua polizia segreta, avevano operato dal maggio 1945 all’inverno 1946-’47 per diffondere un clima di terrore nella popolazione italiana (episodi più eclatanti furono il martirio in odiumfidei del beatificato Don Bonifacio e l’attentato dinamitardo di Vergarolla, compiuto in zona di pertinenza angloamericana, con oltre 100 morti e decine di feriti tutti civili) con il dichiarato intento di farla allontanare. In proposito rimane particolarmente chiaro quanto voluto da Tito e dichiarato dal suo più fedele collaboratore nell’instaurazione del regime popolare «[…] Ricordo che nel 1946 io [Milovan Ðilas, ndr] ed Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana. Gli italiani erano la maggioranza solo nei centri abitati e non nei villaggi. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni d’ogni tipo. Così fu fatto» (intervista al periodico Panorama del luglio 1991).
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La vicenda dell’esodo causato dal terrore generato dalle esecuzioni di tanti civili anche a guerra finita, cui si aggiungevano deportazioni e morte per migliaia di militari fatti prigionieri al termine delle ostilità, è stata a lungo rimossa a causa dell’imbarazzo dei comunisti che avevano appoggiato il disegno annessionista di Tito e dei democristiani che sostenendo le esigenze del Patto atlantico consideravano la Jugoslavia quale utile barriera nei confronti di eventuali aggressioni sovietiche. Mancavano quindi i presupposti per giungere a una piena ricognizione della realtà dei fatti. Questa situazione veniva superata col venir meno della contrapposizione fra blocco occidentale e orientale e la legge del 2004 istitutiva del Giorno del Ricordo trovava l’accordo della quasi totalità delle forze politiche.
Tutto bene quindi? Si ma non del tutto.
Purtroppo dobbiamo prendere atto che persiste nel mondo della cultura e dell’informazione un orientamento minoritario inaccettabile inteso a contestare le finalità della legge del 2004.
Non solo si vuole negare il proposito jugoslavo di eliminare la presenza storica degli italiani da sempre in Istria e a Fiume e la volontà di annessione dell’intera regione Giulia, ma si vuole imporre una lettura che nega la dimensione delle atrocità commesse e riduce in modo drastico la consistenza del numero degli uccisi e degli esodati. Per quanto riguarda la dimensione della barbarie titina, in controtendenza con un indirizzo negazionista e riduzionista è quanto si sta rivelando negli ultimi tempi in Slovenia, quindi a breve distanza dal territorio rimasto italiano. Anche se tacitate dalla grande informazione stanno aumentando le notizie di ripetuti anche recentissimi ritrovamenti di numerose foibe e fosse comuni di persone ostili al regime comunista di Tito in territorio oggi sloveno e croato che potrebbero contenere anche i resti di nostri connazionali. Si tratta di 700 siti già censiti nella piccola Slovenia col ritrovamento di centinaia di resti.
Roma, 22 febbraio 2021
Giuseppe de Vergottini