LA LAMPADINA/RACCONTI DI VIAGGIO – Le Meteore, un bosco pietroso

di Maria Luisa Amendola

Una curva, poi un’altra, i tornanti paiono non finire mai, e infine eccoli i desiderati massi grigi, faraglioni spuntati non so più se dal cielo o dalla pianura un po’ nebbiosa, l’uno accanto all’altro quasi per confortarsi della loro solitudine. Sembrano galleggiare. Meteore, appunto, li hanno chiamati gli antichi anacoreti. Le pareti verticali e lassù, sulla sommità, incuneate, le curiose costruzioni di pietra, incoronate dai tetti di tegole e dalle passerelle audaci, dalle altane che si sporgono verso la pianura. Segni, segni di tempi difficili, i tempi del Medioevo più oscuro.
Che cosa m’aspettavo aggredendo con passo da settantenne ancora valida i ripidi e irregolari 215 gradini che portavano lassù, vicino al cielo, sullo spazio risicato di pietra, in cima alle rocce appuntite dove sorgono le Sante Meteore?
Le Agias Meteora, gli antichi conventi, le minuscole chiese con le loro icone cariche d’oro, e gli affreschi bizantini, e i refettori severi dalle strette finestrelle dove sfrecciano le aquile e le terrazze fiorite affacciate con un senso di vertigine sulla ricca pianura della Tessaglia ove pare fosse nato Achille? 415 metri più sotto scorre, nascondendosi tra i cespugli, il fiume Pineus.
Il sole illumina a tratti le scale, inghiottito da un buio denso nell’alternarsi di corridoi scavati nell’anima della roccia. I pensieri si elevano anche loro a 415 metri sul livello del mare, intorno silenzio. Mi sono voltata, stanca e ormai affannata, come si conviene a una vecchia signora quale in realtà sono (lasciamo stare gli spiccioli, che sono i nostri anni a confronto degli anni luce che si intromettono tra noi e le stelle) mi fermo, mi volto, dietro a me, stretti tra pareti grigie di basalto, una coppia di francesi anche loro alla ricerca di un Perché.

Il “Perché” è negli occhi estatici, tondamente bizantini di santi discepoli e madonne che mi fissano dagli affreschi sui muri del monastero della Trasfigurazione. Il “Perché” è nello sguardo di un monaco ragazzino, non può avere più di vent’anni, scuro di barba e di voce che canta in coro con altri tre compagni, un canto denso, sensuale, leggendo lì nel libro dei salmi che vanno salmodiando, tutti e quattro stretti accanto al leggio, illuminato da un’unica esile candela, pulsante come la vita che hanno abbandonato laggiù in basso, nello sperduto paese di Kalambata, piccolo punto sulla carta del Nord della Grecia, nascosto dai picchi affilati. E quando le cime tutte intorno, le cime che ospitano gli altri conventi saranno coperte di neve? E quando i turisti a ottobre non arriveranno? Ha senso ai nostri giorni rinchiudersi in una solitudine tanto austera?

Ho visitato la cantina, la cellar, le botti, i tini, gli utensili per fare il vino, le presse, tutto rigorosamente di legno, solitudine sì ma buon vino per cantare Dio in letizia. Anche Andronico da Creta che aveva gettato le basi dell’eremitaggio nel 1020 su questo Platylithos, pietra piatta, aveva bevuto lo stesso vino che profumava di miele?
Un lieve tramestio s’infiltra nel silenzio, m’affaccio alla bocca di un orcio: cinque gattini non più grandi del mio dito indice miagolano scivolando lungo le pareti di creta, in un’inutile salita riscivolano lungo le pareti miagolando flebili, in attesa della madre. Chi ha portato quassù il primo gatto issandosi sulle antiche scale di corda, ormai abbandonate che dondolano al vento?
Davanti alla stretta finestrella il vento del mattino agita la grande rete, una specie di cesto di corda che serve ormai soltanto per tirar su merci e cibo, mi sembra di sentire l’odore della paura degli antichi pellegrini costretti nella stessa rete, avvitati l’un l’altro come pesci, dondolanti lungo le ostili pareti di roccia e ascolto il cigolare della corda sull’argano. Non siamo tutti, anche noi come quei coraggiosi viaggiatori sballottati dal vento del Caso, alla ricerca di una mèta? Quella rete aveva ospitato perfino James Bond in non so più quale dei suoi innumerevoli film.

Scatto foto su foto dalla minuscola terrazza/giardino cercando d’inquadrare nel visore della mia macchina la solitudine delle nuvole tra i tetti di questi incredibili nidi d’aquila: erano molti nell’anno 1000, quando cominciarono a nascere finanziati da ricchi asceti turchi e bizantini , solo una decina ne sono stati restaurati.

“QUESTO REFETTORIO FU COSTRUITO CON GLI SFORZI E IL LAVORO DI TUTTI I CONFRATELLI E A SPESE DELL’ABATE SIMEONE NELL’AGOSTO DEL 1557”

La scritta mi fa da guida tra le icone portatili del refettorio lungo 35 metri, tra i tavoli scarni e le panche scomode evidenziano ancora di più i grandi affreschi luminosi, scene di antichi supplizi, la barba di un monaco, la sua sagoma appena accennata brucia su un rogo ma dalle fiamme emergono in volo angeli piccoli come farfalle.
Contagiata dal senso di serenità che malgrado tutto aleggia tra queste spesse mura vado sficcanasando in un grosso quaderno lasciato per un attimo abbandonato su uno scrittoio, ammiro la calligrafia armoniosa dell’amanuense che copia o magari traduce un antico testo greco (l’immagine del mio computer abbandonato a Roma cerca di farsi strada tra i miei dubbi) ed ecco “lui” il mio monaco, del quale sto violando la solitudine, m’è arrivato alle spalle
– Qu’est que vous faites?-un francese barbuto e scuro come gli altri confratelli, balbetto, mi sento in colpa, per fortuna parlo francese, e lui, paziente, mi spiega che ormai il convento vive grazie alle contribuzioni del Ministero della Cultura greca, e che loro, i monaci, si sono accollati il compito di preservare i quadri e gli affreschi e di restaurare tutti gli antichi testi:
Savez vous qu’Esculapio est né içi, a Kalambata? – mi dice e sorride, in effetti il testo che lui sta trascrivendo dal greco antico è proprio un trattato di medicina, no! non di Esculapio ma “soltanto“ di un medico di mille anni fa.
Ormai l’Unesco ha inserito le Meteore nella lista dei luoghi ”Patrimonio dell’Umanità” e mi accorgo di quanto sono conosciute e frequentate quando ridiscendo i ripidi gradini ancora impregnata di misticismo e d’incenso: una frotta di visitatori sta salendo tra squilli di telefonini e richiami schiamazzanti, distruggendo quell’esile silenzio.

Ma tu viaggiatore che vuoi immergerti nel silenzio delle Meteore, che vuoi staccarti dai cellulari e dalle app, tu che sei così saggio da preferire un minuto di silenzio a ore e ore di festival canori dovrai salire quassù alle sante Meteore prestissimo, prima che il nuovo sole sorga, dribblando i pullman che suonano il clacson laggiù, in basso, sul piazzale, e andartene solo dopo aver recitato il “mattutino” con i monaci, in silenzio come sei venuto. Soltanto così l’aspetto strano e maestoso di questi luoghi e la pace che vi si respira, riusciranno a venir via con te, ne potrai perfino respirare l’aria. METEORA non significa ATTRAVERSO L’ARIA?

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4 Commenti
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Francesca
25 Giugno 2021 15:44

Grazie per questo racconto di scoperta, ma credevo che le Meteore fossero interdette al genere femminile! Adesso che invece no, evviva!

Maria Luisa Amendola
Reply to  Francesca
26 Giugno 2021 10:40

In realtà esistono conventi abitati da uomini e altri da donne, ma quando ci sono andata io erano, ambedue,aperti senza distinzione di sesso.

Carlo
25 Giugno 2021 15:26

un percorso bello e fascinoso…

Maria Luisa Amendola
Reply to  Carlo
26 Giugno 2021 10:41

Mi fa piacere leggere la tua valutazione. A ottobre uscirà un libro di viaggi edito da Armando Editore, nel quale questo racconto è inserito. si chiamerà ” Viaggiare allarga la vita”