Articolo di Ida Tonini, Autore Ospite de La Lampadina
A seguito dell’articolo sul whisky del mese passato, Ida Tonini che ricorderete assieme a Marta Solimei ha scritto quei piacevolissimi trattati sui giardini di Roma e paesaggi Laziali, ci ha mandato un divertente libretto intitolato “Allegretto con spirito”. È un tuffo in anni passati dove forse il viaggiare in tanti paesi lontani era forse più difficile ma certo più piacevole. Ma quello che è più sorprendente è che tutto gira intorno a personaggi storici, scrittori etc. e il legame di tutti con il gin e il Martini. Estraggo alcune note che Vi propongo, la prima sul gin.
“Nei famigerati pub la povera gente d’Irlanda beveva soprattutto gin, a fiumi. Il whisky, anzi lo scotch whisky, un distillato di spirito da cereali (orzo), stagionato in botti di rovere, che subisce un lungo e costoso processo prima di essere imbottigliato, era riservato ai signori. Si attribuisce l’invenzione del gin, anzi del genever, a un medico dell’università di Leida, Franciscus de le Boy Sylvius, che nel 1658 trovò la giusta alchimia tra distillato e bacche di ginepro (Juniperus communis) per aromatizzarlo; così nasceva il magico liquore, un rimedio diuretico, digestivo, tonico, coadiuvante dei reni affaticati dei ricchi mercanti olandesi di Leida colpiti da gotta, capace, inoltre, di dar sollievo ai soldati e ai marinai olandesi, che si ammalavano di malaria nei possedimenti oltreoceano.
Il boom che il gin ebbe in Inghilterra si deve all’arrivo sul trono britannico, nel 1689, di un olandese, Guglielmo III d’Orange, e al fatto che una parte del salario degli operai fosse corrisposta in gin. Vero flagello dei poveri, come si evince da un’incisione di William Hogarth, Gin Lane (La strada del gin, 1751), questo sistema elevò il tasso di alcolismo della popolazione povera e creò molti problemi dal punto di vista sociale, con gravi ripercussioni per l’ordine pubblico. Il governo inglese tra il 1729 e il 1751 cercò di porre rimedio con i Gin Acts, che avrebbero dovuto limitarne il consumo, ma senza grande successo.
La storia la scrivono i vincitori, si sa: la ricetta di una pozione simile a base di coccole (bacche) di ginepro e di alcol distillato per mantenerne le proprietà curative appariva già nel Compendium della Scuola Medica Salernitana (XII seco-lo), la prima ad ammettere le donne sia come insegnanti che come studentesse. Da Fulvio Piccinino, massimo storico italiano di vermouth e degli spiriti di casa nostra, raccolgo la notizia a proposito di un ricettario alchemico di Alessio Piemontese, pseudonimo di Girolamo Ruscelli, “De’ secreti del reverendo donno Alessio Piemontese”, edito a Venezia nel 1555 in centinaia di copie e tradotto in molte lingue europee. Tra le innumerevoli ricette riportate si legge dell’Acqua celestiale, fatta con distillato di uva e non di cereali, la quale ha moltissime e notabilissime virtù di come si dirà di sotto. Piemontese enumera le botaniche necessarie per la pozione, molto simili a quelle usate nei gin di oggi: garofano, noce moscata, pepe tondo, coccole di ginepro e di alloro, genziana, fiore di sambuco, cannella fina, aloe, cardamomo, incenso maschio. L’acqua chiarissima e preziosa, rimedio per ogni malanno, cura le ferite e l’otite, elimina calcoli, sana le emorroidi, la rogna, la tigna, utile contro i morsi velenosi, per ogni ferita intossicata e per ogni piaga infetta, donando vita lunga dell’uomo e a chi coi debiti modi saprà farla.
La lunga storia del gin italiano ebbe inizio ai tempi dei monasteri e degli speziali degli orti botanici, che con le erbe cercavano rimedi per ogni problema. Lo testimonia il gin prodotto ai nostri giorni dai Monaci dell’Abbazia benedettina di Vallombrosa, immersa tra le foreste dell’Appennino Tosco-Emiliano.
È tra i gin più amati dagli intenditori per l’alta concentrazione aromatica delle bacche di un tipo di ginepro selvatico che si raccoglie tra le colline di San Ginuno e Pieve di Santo Stefano nella provincia aretina. Che il gin fosse una bevanda diffusa anche in Italia lo conferma nientepopodimeno che Giosue Carducci, la cui passione per il ribollir de’ tini a persone della mia età è ben nota. Così si espresse nel 1881 in Gin e ginepri:
Quanto azzurro d’amori e di ricordi,
Gin, infido liquor, veggo ondeggiare
Nel breve cerchio onde il mio gusto mordi;
O dolci selve di ginepri, rare,
A cui fischian nel grigio ottobre i tordi.
Lungo il patrio, selvaggio, urlante mare!
Cincin!
Accadono cose sorprendenti quando si fa ricerca: su internet, puoi pescare un volume stampato nel 1500 da consultare comodamente seduto alla scrivania, o come succede a me sul mafraj di casa, con vista sul tramonto. Un altro incontro inaspettato, poi, mi ha trascinato in un vortice di suggerimenti, spunti, stimoli.
Non credo sia eccessivo affermare che il gin, in questi ultimi anni, si sia preso una grande rivincita sulla vodka e sul whisky. La Spagna ne è la prima consumatrice in Europa, cosa da imputare, credo, all’alta concentrazione, sulle sue spiagge, di una gioventù sempre più assetata e meno fantasiosa, che trascura margarita, caipirinha, mojito, daiquiri, pisco. Veloce da produrre, flessibile nella lavorazione, il gin, il cui unico obbligo perché sia tale è dato dalla prevalenza del ginepro sulle altre botaniche, sfoggia più di mille etichette, come quelle collezionate dall’Atlas Bar di Singapore, e le distillerie ne inventano ormai una al giorno. Il tutto ebbe inizio una ventina d’anni fa, quando apparve sul mercato l’Hendrick’s, prodotto dalla distilleria ‘William Grant, che si era inventata l’innesto tra le botaniche di cetriolo e rosa. Esiste persino un gin aromatizzato ai pezzi di Harley-Davidson. Il Bel Paese, un po’ in ritardo, è entrato in questo mondo apportando le tante biodiversità che lo compongono e giocando sulle molteplici formule possibili: dai fiori alle fave di cacao, dal tè fino alle olive taggiasche, al pecorino, al profumo della canapa, del sigaro toscano, del basilico genovese. Se ne producono in tutte le regioni d’Italia tranne nel Molise e nella Basilicata. L’Abruzzo si fa onore con il suo J7 ad alto tasso alcolico, 47 gradi, sette botaniche tutte a chilometro zero… Si parla anche di gin barricati, invecchiati, il che avvicinerebbe il gin al whisky. Ma chi glielo fa fare. Costerebbe di più e palati sofisticati continueranno a confrontarsi con vini, cognac e altri spiriti di alta classe. In qualche isola greca il gin&tonic si serve dopo aver affumicato il bicchiere con un rametto di mirto infuocato. Si producono caffè e cioccolato martini, marmellate al gin&tonic e caci d’alta quota aromatizzati al gin; li produce il caseificio Capriz di Vandoies di sotto, sosta preziosa lungo la Val Pusteria tra Monguelfo e Bressanone. Non ho dubbi che queste e altre miscele possano stregare e sedurre ma, insisto, less is more, sia per il gin&tonic che per il Martini.
Intraprendenza, curiosità, passione fanno del gin un prodotto facilmente customizing anche nelle forme delle bottiglie che lo contengono, spesso decorate da artisti, pittori, fotografi, street artist, tatuatori, designer. Il che permette di inventarsi, ad esempio, bottiglie in vetro opalino bianco soffiato con un pendentif di una piuma d’argento per contenere il Watenshi Gin (Cambridge Distillery) da 2850 euro. Attualmente il più caro al mondo. In rete si trovano delle palle di vetro verdi piene di gin da appendere agli alberi di Natale, usanza che si immagina derivi da una lontana tradizione anglo germanica.
Gli oscilla, invece, di origine latina, immagini antropomorfe, testine, pupazzetti in materiali deperibili come lana cera e argilla, venivano sospesi agli alberi in dono a Bacco per propiziare la maturazione della vigna.