Articolo di Giuseppe de Vergottini, Autore Ospite de La Lampadina
L’”operazione militare speciale” della Federazione russa di fine febbraio contro la Ucraina si è manifestata nei fatti come l’inizio di una vera guerra di aggressione finalizzata a sottomettere uno stato sovrano. Le reazioni all’aggressione non si sono fatte attendere.
Per quanto riguarda gli interventi di organismi politici, nella impossibilità di far ricorso utile al ruolo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, paralizzato dal diritto di veto russo, l’Assemblea Generale nella risoluzione del 2 marzo ha indicato con chiarezza chi ha violato la pace e la sicurezza internazionale. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha sospeso la Russia dai propri diritti e, prevenendo una espulsione, il 10 marzo la Russia ha annunciato il recesso dal Consiglio d’Europa.
Per quanto riguarda il profilo giurisdizionale si sono attivati distinti percorsi.
La Corte internazionale di Giustizia nel quadro delle misure previste dalla convenzione per la prevenzione e repressione del genocidio il 16 marzo ha ordinato in via interinale alla Russia di desistere dalle sue operazioni militari in Ucraina.
È stata poi accolta il 10 marzo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo l’istanza in via cautelare che il governo ucraino aveva presentato venendo riconosciuto che le operazioni militari in corso rappresentassero un rischio per la popolazione civile. Inoltre il 2 marzo è stata attivata la Corte penale internazionale per l’accertamento del crimine di genocidio, dei crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Occorre anche riconoscere che questo attivismo non è stato e non sarà in grado di sospendere le atrocità di un conflitto che è destinato a proseguire.
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Con l’aggressione all’Ucraina siamo di fronte a un caso evidente di guerra internazionale che coinvolge due stati sovrani. Quindi il termine “guerra” risulta pertinente in quanto è apparso chiaro fin dalle battute iniziali il proposito russo di conseguire la debellatio del paese invaso. L’Italia si è improvvisamente resa conto del rischio che il conflitto potesse toccare l’area geografica inclusa nel perimetro Nato e quindi potesse coinvolgerla direttamente. È anche vero che molti hanno inizialmente pensato che il conflitto riguardasse soltanto aggressore e aggredito e non toccasse il nostro Paese ma la cosa non è così semplice se si considera che abbiamo deciso le sanzioni economiche, l’invio di armamenti e l’isolazionismo della Federazione Russa.
Ci si è quindi posti l’interrogativo di come si atteggi l’ordinamento italiano di fronte a una ipotesi di partecipazione a una guerra.
Facciamo quindi qualche richiamo ai vincoli che il diritto internazionale e la nostra Costituzione pongono alle decisioni da assumersi da parte della politica.
Iniziamo dal richiamo delle clausole costituzionali che interessano la guerra. Il noto articolo 11 della costituzione ripudia la guerra recependo il diritto internazionale e in particolare l’art. 2, para.4, della Carta delle NU che considera illeciti la minaccia e l’uso della forza armata “contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”. Parallelamente rileva l’art. 51 della Carta che garantisce la difesa individuale e collettiva come diritto naturale di ogni stato a resistere a una aggressione.
Si manifesta quindi la coincidenza fra fonte internazionale e fonte costituzionale quanto alla recezione dei principi garantisti propri della concezione liberale della democrazia.
L’articolo 11 rifiuta con fermezza la partecipazione dell’Italia a guerre di aggressione e quella finalizzata alla soluzione di controversie internazionali, ma non ha impedito diverse forme di intervento armato all’estero nel quadro di interventi promossi da organizzazioni internazionali di sicurezza. L’articolo 11 viene solitamente richiamato per sottolineare soltanto alcuni dei più evidenti profili della conflittualità armata che la Costituzione rifiuta. Questa non è tuttavia in principio vietata qualora si inserisca nel dovere di difesa inteso ad assicurare la sicurezza della comunità e delle istituzioni statali. Sicurezza significa protezione dalla invasività proveniente da azioni esterne, di terzi stati, di realtà internazionali aggressive, di organizzazioni terroristiche. Sotto questo aspetto la sicurezza assicura la protezione da aggressioni anche (o a volte prevalentemente) armate e richiede apparati di protezione tramite attività di intelligence e militari. La Corte Costituzionale ha ben posto in risalto non la sola liceità ma la doverosità della difesa.
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Per quanto riguarda il momento decisionale in tema di partecipazioni a iniziative belliche, ricordiamo l’articolo 78 della Costituzione che contempla modalità procedurali dirette a deliberare e dichiarare la volontà intesa a introdurre lo stato di guerra internazionale. Ma si tratta di clausola del tutto priva di attualità, mai utilizzata per decidere partecipazioni a conflitti armati quali quelli in Iraq, Kossovo e Libia, rimanendo tuttavia valido il principio della necessaria compresenza degli organi di indirizzo (Parlamento e Governo) e di garanzia (Capo dello Stato) nella assunzione delle decisioni riguardanti la sicurezza internazionale dello stato ivi compreso il ricorso all’impiego della forza armata.
Il coinvolgimento dei tre organi costituzionali è stato sempre effettuato con riferimento a decisioni comportanti il ricorso all’impiego potenziale o reale della forza armata in assenza della esigenza di introduzione formale dello stato di guerra ed è stato accuratamente disciplinato dalle dettagliate normative introdotte per affrontare il caso delle missioni militari fuori confine.
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Rivolgendoci ora al modo con cui le istituzioni italiane stanno affrontando la crisi ucraina, si deve partire dalla prassi degli anni trascorsi.
Il ruolo del Parlamento come centro dell’indirizzo e controllo relativamente alle scelte politiche dirette all’impiego dello strumento militare appare appannato. Il Governo si conferma il centro preferenziale di decisione in quanto collegato agli organismi di sicurezza internazionali in cui si dibattono e decidono le grandi opzioni che devono essere eseguite a livello interno. Il che richiede spesso immediatezza di attuazione non agevolmente conseguibile in sede parlamentare. A sua volta il Governo risente degli effetti della assunzione di un ruolo marcatamente decisionale del Presidente della Repubblica. E in proposito il Consiglio Supremo di Difesa si è rivelato la sede più efficace ed utile per affrontare rapidamente l’emergenza. Diviene quindi, anche se soltanto nel momento contingente dell’emergenza, una sorta di gabinetto di crisi in cui convergono Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio, ministri e vertici militari.
Nel caso della crisi ucraina il Consiglio Supremo si è riunito il 24 febbraio e dal comunicato rilasciato al termine emerge in modo difficilmente smentibile che in quella sede si è definito l’indirizzo politico nazionale sulla crisi ucraina. La riunione del Consiglio dei Ministri ha fatto soltanto seguito il giorno successivo dopo lo svolgimento da parte del Presidente del Consiglio di un’informativa alle Camere. E in tale sede sono stati adottati due decreti legge con le misure per affrontare la crisi ucraina ivi compresa la decisione di inviare armamenti all’aggredito. L’invio di armi a un esercito regolare che operi esclusivamente all’interno del territorio del proprio stato non è qualificabile come uso illegittimo della forza contro l’altra parte belligerante e va considerato come un supporto all’esercizio della legittima difesa individuale da parte dell’Ucraina. Conclusivamente la linea politica seguita dall’Italia nell’affrontare l’emergenza ucraina appare rispettosa delle clausole dell’articolo 11 in collegamento alle prescrizioni dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite.
Se la giurisprudenza fosse matematica la professione di ´avvocato ‘ non esisterebbe. Solo Il risultato delle operazioni matematiche è incontrovertibile.