Racconto di Pinzi Fabbri, Autore Ospite de La Lampadina
Sul maggiore o minore attaccamento al denaro da parte degli umani. Sorprese e stranezze che si riscontrano in questo campo.
A mia cugina Malù. con grande affetto.
Il regalo di Natale dello zio Gustavo, tradizionalmente, arrivava all’Epifania. In effetti, in molte case nelle generazioni precedenti la mia, s’usava così.
Per noi che c’eravamo convertiti al costume anglosassone del Natale la cosa aveva il vantaggio di prolungare il piacere. Quando eravamo piccoli all’Epifania mettevamo la calza, ma, insomma, si trattava di semplici dolciumi e piccole cose. Smessa la calza per raggiunti limiti d’età era cominciata questa bella abitudine del regalo del vecchio zio che, oltretutto, era particolarmente generoso con noi che eravamo gli unici nipoti.
Quella Befana 1962 per me doveva essere particolarmente ricca perché avevo crediti per meriti scolastici acquisiti del tipo maturità classica e iscrizione all’Università. Lo zio mi regalò quindi, cosa peraltro molto desiderata, una cinepresa Paillard Bolex super 8.
La inaugurai filmando lui il giorno dell’Epifania sul terrazzo di Piazza Adriana; si vede lui che parla, con Castel Sant’Angelo sullo sfondo, e io so, ancora oggi, cosa stava dicendo. Si stava parlando dello spettacolo teatrale Caro Bugiardo di J. Kilty che Stoppa e la Morelli avevano messo in scena quella stagione e che consisteva nella lettura da parte dei due dell’amoroso scambio epistolare tra Bernard Shaw e l’attrice Patrick Campbell. Lui stava dicendo che, sì, l’aveva visto con piacere perché i due Stoppa – Morelli erano bravi, ma quello non era teatro.
A rivedere oggi lo spezzone di film fa impressione; non essendoci il sonoro vedere queste labbra che si muovono nell’espressione facciale ora seria ora sorridente, intuire le parole pronunciate ma non poterle udire ti dà la gelida intuizione del significato di: morte che ci separa.
Non è, come nel sogno, il morto che parla; lì tu sei nell’ incoscienza del sonno e pur senti quello che il morto dice. Il più delle volte nella trasposizione onirica il morto non è neanche morto.
Qui, invece, lo è e tanto più lo è in quanto lui parla e tu non senti quello che dice.
Comunque, feci appena in tempo a filmarlo perché due giorni dopo sarebbe andato la sera a dormire per non risvegliarsi la mattina seguente.
Due giorni dopo ancora avrebbe compiuto ottanta anni.
A quei tempi si pensava che fosse un’età più che ragguardevole; non si era abituati, infatti, a veder la gente campare così tanto. Ciò non di meno, nel caso suo, faceva rabbia perché si portava talmente bene gli anni suoi che avrebbe potuto facilmente viverne dieci in più.
Il fatto è che era un testone. Aveva certe manie dalle quali non derogava neanche a cannonate. Per esempio, non doveva mai prendere medicine perché queste alterano il corso naturale degli eventi e, soprattutto, non doveva mai piegarsi a compromessi con la comodità della vita perché questi rendono l’uomo schiavo. Quindi l’ascensore, anche se c’è, non si prende perché poi ci si abitua.
Come facevano i nostri avi? Non avevano l’ascensore eppure campavano lo stesso.
Proprio quella mattina di inizio gennaio, aveva un po’ di raffreddore un inizio di influenza; aveva voluto andare in ufficio alla Cisa in Via Sicilia; per le scale aveva incrociato il medico della società che vedendolo salire a piedi l’aveva rimproverato:
– Avvocato, lei ha un cuore che è un orologio svizzero! Perché lo affatica inutilmente?
Basta. Così se ne andò come sicuramente aveva desiderato che fosse. Senza compromessi, senza
decadenza, senza rinunce, senza occhiali, senza protesi in bocca.
E, andandosene, ci lasciò la sua casa con trentamila libri dentro.
Quando possiedi trentamila libri e li tieni in casa, delle due l’una, o ti occupi dei libri o ti occupi della casa. Lo zio Gustavo chiaramente propendeva per la prima soluzione; la casa, quindi, era parecchio malandata e bisognava rimetterla a posto. Prima, però, bisognava svuotarla del suo contenuto cartaceo. Non fu cosa semplice. Di questo compito oneroso s’occupò Anna, mia madre, che s’avvalse della collaborazione di una mia lontana e simpaticissima cugina forlivese di nome Malù.
Le due donne presero con grande impegno il compito e stabilirono certe mattine della settimana in cui incontrarsi in quella specie di sacrario spento che era diventata quella casa ora che il vecchio proprietario non c’era più. Tutti noi suoi parenti stretti, ora eredi, conoscevamo poco o nulla di quella misteriosa residenza che lo zio non amava mostrare sia per ragioni di riservatezza che di pudore. Per cui quando le due se la ritrovarono improvvisamente a loro disposizione non sapevano neanche dove cominciare a mettere le mani. Cinquant’anni di vita di un bibliofilo conservatore erano lì davanti a loro affastellati secondo un ordine misterioso e inintelligibile.
Oltre ai libri c’erano montagne di carte che il vecchio aveva conservato religiosamente per non si sa quale motivo di logica o sentimento.
Cosa tenere, cosa buttare?
Per fortuna, almeno per i libri, la strategia fu rapidamente delineata. Posto che dei trentamila volumi noi non ne avremmo potuti recepire più di un migliaio, i restanti ventinovemila furono ripartiti secondo lo schema: letteratura alla Biblioteca Comunale di Forlì, giurisprudenza alla Biblioteca Aziendale della Snia Viscosa.
E con questo schema distributivo ben chiaro in mente le due donne si misero al lavoro.
Ma la curiosità, si sa, è femmina per cui i libri non venivano prelevati e inscatolati secondo il principio del minimo indice di manodopera, no, uno a uno, aperti, controllati alloro interno per vedere se c’erano carte o fotografie rimaste all’interno del volume per dimenticanza. A parte tonnellate di polvere che, pure, andava rimossa.
Ben presto s’udì il primo urlo di stupore più o meno soffocato. Dall’interno del libro in esame spunta una busta che contiene, udite, udite, soldi. Banconote.
Ahimè, fuori corso legale.
Insieme alle banconote, in genere, un biglietto che attestava il pagamento di una parcella o di un canone di locazione.
Subito il commento fu: certo che bisogna avere una testa particolare per dimenticare i soldi in mezzo a un libro! T’è mai successo a te? No, mai, lo giuro e a te? Mai e poi mai!
A quel primo uri etto soffocato ne seguì un altro e poi un altro, un altro, un altro.
Dieci, cento, mille esclamazioni di stupore malcelato.
Sembrava una specie di colletta per una buona causa in cui tutti s’affannavano a partecipare: da Cicerone a Macchiavelli, da Tacito al Manzoni, da Dante a Balzac, da Seneca a Molière, tutti volevano aver contribuito.
La cartellina inizialmente usata per raccogliere i proventi diventò una scatola da scarpe e poi uno scatolone. Le due donne erano allibite e contrariate. Kilogrammi di banconote del Regno d’Italia che erano state in corso legale, in periodi diversi, dagli anni dieci alla guerra e ora valevano zero.
Quali le ragioni di questo misterioso comportamento? Anna e Malù s’improvvisavano psicanaliste senza il paziente sul lettino. Era una forma paranoica di disprezzo del denaro? Non si sarebbe detto.
L’uomo, per altri versi, aveva mostrato lucida consapevolezza del valore di questo. Era stato un generoso, aveva spesso aiutato gli altri. Possibile che il generoso ignorasse il valore della sua generosità? Era rimasto scapolo nonostante una vita costellata di amori anche grandi per quale ragione se non per il fatto che si sentiva economicamente obbligato verso una famiglia di origine con un padre anziano di salute cagionevole, con un fratello piccolo che doveva studiare, con uno zio sciagurato giocatore e disertore pieno di debiti? E vuoi che uno che rinuncia all’amore per mantenere la famiglia non conosca il valore del denaro? Le domande si facevano complicate. Più complicate del caso stesso preso in esame. Allora le aspiranti psicanaliste saltavano il giro e convertivano l’attività psicoanalitica in una semplicemente inquirente. Era forse un nascondiglio in assenza di una cassaforte? Ma se così fosse stato avrebbe dovuto esserci una logica nella distribuzione dei volumi che nascondevano il gruzzolo. Non so, stesso scaffale, stessa stanza, stesso autore, stesso argomento, stesso editore, stesso formato del libro. Invece niente. Niente di niente. Totalmente random.
A forza di ipotesi e di esclusioni le due donne erano esauste.
L’unica bozza che riusciva ad emergere da questo estenuante lavorio di indagine psicologica era quella di un uomo che trovava nella lettura un tale sfrenato piacere, una gratificazione talmente esauriente che tutto il resto diventava assolutamente privo di interesse e immeritevole di attenzione.
Bel risultato.
II cerchio si chiudeva nel punto dal quale si era partiti.
Anna e Malù furono prese da una crisi di ridarella che non riuscivano più a contenere.
S’affacciarono alla finestra della stanza nella quale si trovavano e che dava su Via dei Seminario.
Lo spettacolo che apparve loro non aveva niente a che vedere con quello che si vede oggi da quella stessa finestra: qualche sporadico passante perlopiù diretto al o proveniente dal Ministero delle Poste e Telecomunicazioni che occupava il grosso edificio adiacente oggi sede ancillare della Camera dei Deputati; qualcuno entrava o usciva dalla macelleria situata al numero civico 84. Non c’erano sciami di turisti svaccati e neanche composti. Non c’era la frenesia dei negozi di ricordini e di magliette dei giocatori. Non c’erano le garitte dei carabinieri e non c’erano neanche i cartelli di divieto di sosta perché, comunque, non c’erano macchine che pretendevano di parcheggiare in Via del Seminario. Se qualcuno avesse dovuto lasciare la macchina c’era tanto di parcheggio autorizzato in Piazza del Pantheon, al centro della piazza. II portinaio di Palazzo Seriupi chiacchierava con il suo dirimpettaio del Ministero senza neanche dover attraversare la strada tanto questa era stretta e silenziosa in assenza di auto che transitassero. Già solo il ridere delle due donne alla finestra veniva udito dai passanti che alzavano lo sguardo e si lasciavano contagiare.
Tra le due ci fu uno sguardo di intesa appena sottolineato dalle parole; arretrarono pochi passi all’interno della stanza, prelevarono in due lo scatolone pieno di banconote, lo appoggiarono al davanzale e da lì rovesciarono il contenuto in istrada.
La brezza che in genere s’incunea nello stretto varco che collega la Rotonda a Sant’Ignazio fu complice e fece il resto. Centinaia di farfalle colorate svolazzavano per la via inseguite da cacciatori senza retino.
Un coro di strilli e di risate si propagò velocemente per il quartiere rallegrato dalla coreografia del fatto in ispecie.
Sembrava la scena finale della Rapina a mano armata di Kubrick spogliata del suo significato di nemesi e ridotta al semplice ruolo di scherzo del destino.
L’indomani mattina i netturbini non s’accorsero di nulla. Il senso del collezionismo insito in ogni passante aveva lavorato per loro.
Roma, Giugno 2009
Non lo ricordavo, una delizia!