LA LAMPADINA/RACCONTI – Camalina, Camalina…

Camalina, Camalina …

Sulla occupazione americana di Napoli tra il 1943 e il 1945 già egregiamente trattata da Curzio Malaparte nel suo capolavoro “La pelle” del quale il presente racconto pretende d’essere una piccola estrapolazione.

In memoria di quello squisito carciofino sott’odio che si
chiamava Leo Longanesi e del suo ottimo “Un morto
tra noi” nel quale, al paragrafo 3 della Prima Parte, si
ritrova un caso analogo di passaggio, in rapida
successione, dai tedeschi agli americani con i rispettivi
stili e connotati.

Il sole si era levato con l’ aria di voler essere protagonista quel quarto ed ultimo giorno delle famose “Quattro giornate di Napoli” quasi a voler dare il benvenuto agli anglo-americani che erano alle porte della città e quasi a voler intonare nelle orecchie degli ultimi tedeschi in ritirata il ritornello classico partenopeo di fine spettacolo: Iatevè, iatevè, iatevenne ch’è fernuto!
Dai paesi dell’hinterland napoletano iniziava il rientro degli sfollati che tornavano a quello che restava delle loro case. Si tornava a piedi, naturalmente, trainando carretti carichi di poveri effetti personali. Solo pochi avevano un asino o un vecchio ronzino. Ogni tanto tra la folla, qualche scassone di camion che aveva rubato la benzina ai tedeschi faceva servizio corriera.
Guido, Anna ed io tornavamo da Ottaviano dove ci eravamo rifugiati mentre il colonnello Scholl, comandante del presidio tedesco di Napoli, pretendeva di arruolare forzatamente 30.000 uomini di età compresa fra i 18 e i 33 anni. Spontaneamente, si fa per dire, se n’erano presentati 180, gli altri 29.800 circa li si cercava di convincere con le buone maniere. A dire il vero, sia Guido che io eravamo fuori della forbice suddetta perché lui aveva 45 anni e io 4 mesi, però non si aveva certezza che la forbice non s’allargasse. Per fare un esempio delle buone maniere adottate per il reclutamento cito il caso di Tonino Giuliani che era un giovane e valido ingegnere poco più che trentenne, direttore tecnico dello stabilimento Cisa Viscosa di Napoli. Giuliani era del ’12 aveva già moglie e due figli e abitava nella palazzina davanti alla nostra all’interno dello stabilimento. Ma come trentunenne, all’epoca dei fatti, entrava nella forbice, quindi lo presero e, senza tante storie, lo caricarono su un camion pieno zeppo di altri disgraziati come lui che non sapevano dove sarebbero stati scaricati e a far cosa. Fortuna volle che il camion che stava percorrendo una strada extraurbana, non riuscendo a fare un tornante in una botta, rallentò e Tonino ebbe la presenza di spirito di buttarsi giù dal mezzo e correre a precipizio giù per un dirupo tra le vigne che si arrampicavano fin quasi al ciglio della carreggiata. Naturalmente gli spararono dietro varie raffiche di mitra ma il suo angelo custode lo protesse bene e si salvò. Corse all’impazzata, col cuore in gola, a zig-zag tra le vigne mature, si nascose chissà dove, con istinto animalesco, in ogni buca e in ogni grotta, in ogni cantina e in ogni anfratto che trovò tra l’istante della fuga e casa sua, per non vedere neanche da lontano la sagoma di un tedesco, e, in capo a pochi giorni, la sua via crucis sarebbe finita e la sua esperienza sarebbe stata un ricordo da raccontare mille volte ai figli e agli amici.
Mi curavo poco delle ambasce di quel controesodo adagiato com’ero nella mia comoda carrozzina di quei tempi che sembrava una Packard Sedan. A ripensarci oggi sembra incomprensibile; chissà perché i fabbricanti di carrozzine per bebé facevano quei mostri ampollosi. Forse le opulente carenature metalliche davano la suggestione di una maggior protezione della creatura o, forse, l’uomo prima dell’invenzione della plastica e dei pannoioni non aveva ancora scoperto il senso del pratico. Forse chi spingeva una carrozzina, a quei tempi, era socialmente solo uno schiavo e, allora, chi se ne frega o, forse, non c’erano problemi di parcheggio.
Comunque, era pomeriggio inoltrato quando la mia Packard varcò il cancello della Cisa e imboccò il viale che portava a casa nostra. I tedeschi avevano evacuato la fabbrica occupata e sembrava che gli ultimi di loro stessero già fuori dai confini della città.
Invece no.
L’ultimo tedesco stava uscendo in quel momento da casa nostra; stava infilando goffamente nel sacco gli oggetti che aveva ritenuto di suo interesse e pratici da asportare. Vedendoci ci puntò la pistola contro e rivolto a mio padre, con lieve movimento della testa all’indietro come a indicare la casa, disse:
– Tu patrone?
Guido, con un certo senso dell’umorismo, rispose:
– Si, prima della tua visita ero io il patrone.. ..ora non so!
Il tedesco non si curò della battuta perché aveva puntato gli occhi su di me; tra il mio collo e il giro collo della maglietta aveva notato qualcosa che gli piaceva. Con la Luger sempre puntata infilò le sue rozze dita nella mia scollatura e estrasse l’oggetto delle sue attenzioni: la catenina con medaglietta di Sant’Antonio; il tutto in oro 18 k.
L’uomo stava già per strappare il tutto senza troppi riguardi per la mia cervice quando Anna mandò un urlo che si sentì anche a Piazza Municipio:
-Tu, porco schifoso, non ti permettere di toccare il bambino! Non ti vergogni vigliacco? Lo sai che se porti via la catenina al bambino Sant’Antonio potrebbe fulminarti prima che arrivi al cancello? e, incurante della pistola, si sarebbe lanciata sul poveretto se Guido non l’avesse fermata.
Il malcapitato, come folgorato dalla maledizione del Santo di Padova, mollò la presa, indietreggiò alcuni passi con l’arma sempre puntata contro di noi, poi si girò e se la dette a gambe.

 

Carmelina era uno sgorbio. Il classico esempio di quando la genetica si diverte a fare un errore sopra all’altro. La sua bruttezza era proverbiale: piccola, tozza, con i capelli ricci perennemente unti e forforosi, gli occhi piccoli, strabici e ravvicinati, il naso grasso e informe, la dentatura fatta di cavalli di Frisia, il mento assente, il seno a forma di fiaschi all’ingiù, una pancetta insensata alla sua giovane età e le gambe come due cippi totalmente prive di caviglie. Eppure la ragazza, poco più che ventenne, era figlia di due operai della Cisa assolutamente normali; lui era turnista al reparto preparazione viscosa ed era considerato un maschio quasi prestante; lei era addetta al reparto scelta e imballaggio matasse ed era una donna quasi delicata; quindi, come diavolo avessero fatto a produrre quello sgorbio, Dio solo lo sa. Come sempre succede in questi casi l’immaginario collettivo si sbizzarrisce in mille ipotesi ma, visto che anche i nonni, a detta di chi li aveva conosciuti, erano morfologicamente ineccepibili, l’ipotesi più accreditata era che la madre durante la gravidanza fosse stata affetta da una non meglio precisata forma virale che aveva provocato questo risultato sul feto. Non so quanto di vero ci fosse in questa credenza, c’è da dire, però, che la presunta malattia che aveva così deformato il corpo della creatura ne aveva totalmente risparmiato il cervello. Dal punto di vista intellettivo, infatti, Carmelina era assolutamente normale, anzi aveva un’intelligenza superiore alla media.
Cosicché non aveva avuto difficoltà ad essere selezionata per venire a servizio a casa nostra nel ruolo di cameriera e bambinaia. O meglio, più bambinaia che cameriera.
Volente o nolente, quindi, nei primi mesi della mia vita io ebbi un rapporto stretto con lei. Era lei che, il più delle volte, mi portava a spasso con la mia Packard Sedan nei viali dello stabilimento. Nelle note caratteristiche della ragazza, oltre, e in contrasto stridente con quanto abbiamo già detto, c’è da dire che ella, per nulla consapevole o complessata della sua bruttezza, puntava gli occhi sempre e solo sugli uomini più belli della comunità. E aveva un gusto infallibile, giovane o maturo, scapolo o sposato, chiaro o scuro, alto o basso, se un maschio veniva comunemente considerato il più bel fico del bigoncio, c’era da essere sicuri che piaceva a Carmelina.
Il suo guaio era che lei non era mai piaciuta a nessuno, non solo ai fichi, no, proprio a nessuno.
Ma contrariamente a quello che si potrebbe pensare, questo non provocava in lei crisi psicologiche o stati depressivi; lei viveva felice e imperturbabile la sua condizione di brutto anatroccolo come se, giorno verrà presago il cor mel dice. (1)

L’indomani 1° ottobre 1943, due giorni dopo la firma a Malta dell’armistizio cosiddetto “lungo”(2), gli americani erano a Piazza Municipio. Accolti come salvatori della Patria in una Napoli semidistrutta, affamata e stremata vi sarebbero rimasti per altri due anni in veste di autorità massima e plenipotenziaria. Contrariamente a quello che molti pensano la loro dominazione non fu soffice non fosse altro per doversi essi difendere dalla nota furbizia degli indigeni per i quali la loro opulenza in tutti i campi costituiva occasione di appetitosi bocconi. Direi che l’immagine simbolo del rapporto popolo sovrano — popolo soggetto è quella bellissima scena del Paisà di Rossellini in cui si vede il piccolo scugnizzo che, dopo aver familiarizzato con il soldato nero yankee mezzo sbronzo, quando questo sta per addormentarsi, gli dice: Ohe, non t’adduorme, pecchè si tu t’adduorme io m’arrobb’ e scarpe! Cioè, non c’è amicizia che tenga, l’occasione fa l’uomo ladro.
Il che è ancora più vero quando quest’ultimo ha fame.
La firma dell’armistizio di Malta significò, ovviamente, la totale consegna del Paese, perlomeno quello occupato dagli anglo-americani, agli occupanti. Ma nell’armistizio non c’era scritto che gli occupanti, in cambio, ci dessero la cioccolata.
Restando a Napoli, questo aspetto della realtà ci fu subito chiaro quando lo stabilimento della Cisa fu invaso dai vincitori che lo trasformarono in una loro piccola cittadella attiva ed efficiente fin nei minimi dettagli. Tra questi il più interessante, per noi vinti ancorché cobelligeranti, era una mensa per non so quante unità, ma comunque un numero enorme, che si andò ad installare al posto di quella che era stata la mensa di fabbrica, con le finestre a poca distanza da quelle di casa mia.
Non ricordo con esattezza quanto durò questo stato di cose in rapporto ai due anni che gli americani rimasero in città ma certamente fu un periodo adeguatamente lungo e che tanta parte ebbe nella storia della mia prima giovinezza. Anzi dirò di più, fu quella la prima occasione in cui mi accorsi di avere, sull’argomento, un parere diverso da quello di mio padre. Il povero Guido, infatti, ebbe vari fastidi e dispiaceri per la pignoleria e i metodi degli americani, io, al contrario, ebbi solo vantaggi. Lui ricevette almeno due mandati di comparizione dalla Polizia Militare di cui uno per uno pneumatico Good Year completamente liscio e probabilmente anteguerra montato sulla Fiat 1100 della Cisa e l’altro per due tubetti di crema da barba Palmolive lasciati imprudentemente in vista sul sedile posteriore della stessa macchina mentre era ferma e parcheggiata. Questi mandati di comparizione erano una pratica molto poco piacevole. Istituiti con l’evidente finalità di arginare il fenomeno del mercato nero erano dei veri e propri processi per direttissima durante i quali il ricevente veniva trattato peggio che un imputato; chiuso in una stanza dalla quale non si poteva muovere né avere alcun contatto con l’esterno, costretto, in genere, per essere più lucido durante l’interrogatorio, ad aspettare perlomeno una notte intera se non ventiquattr’ore. Con mentalità prettamente anglo-sassone ci si aspettava che, al termine, il malcapitato dichiarasse – si, ho acquistato il sapone da Ciccillo Esposito detto il contrabbandiere residente in un vascio in via tale numero tale. Per cui, quando, invece, si sentivano dire – ma io ho comprato la crema da barba da un ragazzetto con i capelli neri, mai visto né conosciuto, mentre ero fermo al semaforo di Santa Lucia con Via Chiatamone, atteggiando la bocca, come si dice, a culo di gallina, ti dicevano – oooh, sorry, you can go!

Ancora più intelligente l’interrogatorio per lo pneumatico Good Year:
– Dove ha acquistato lo pneumatico anteriore destro della sua macchina?
– Ma, Sir, si tratta di una carcassa completamente liscia che ha fatto più di centomila kilometri e risale, quindi, sicuramente a prima della guerra.
– E allora, che vuole dire?
– Voglio dire che non ricordo più! Sa, in fabbrica avevamo quattro camion e tre automobili, c’era un certo ricambio di gomme che venivano acquistate da vari rivenditori; compravamo da quello che, di volta in volta, aveva quanto ci serviva.
– E lei sarebbe in grado di ritrovare la fattura di quello pneumatico Good Year?
– Mi sembra molto improbabile, Sir, sa noi abbiamo avuto l’occupazione tedesca della fabbrica e i tedeschi consideravano gli archivi cartacei un inutile ingombro di spazio.
– Ali, voi avete avuto l’occupazione tedesca della fabbrica?
– Yes Sir!
– Ooooh, I see. Ok, you can go!

Mentre Guido subiva questo tipo di stress, fortunatamente a lieto fine, io avevo scoperto, o meglio, Anna per me, che passeggiare con la Packard Sedan sotto le finestre della mensa militare americana produceva un sacco di vantaggi. I cuochi, infatti, inteneriti dalla scena idilliaca riempivano la carrozzina di scatolette di ogni genere e tavolette di cioccolata. E questo, con i tempi che correvano, non ci dispiaceva affatto. In fondo si trattava di una valida contropartita ai fastidi sofferti dal povero Guido e di un recupero dell’immagine dell’americano tipo.
Il problema cominciò quando ci accorgemmo che uno dei cuochi, che probabilmente doveva essere un americano di origine italiana perché diceva di chiamarsi Mario, era un giovane di una bellezza assolutamente fuori dal comune. Potrei dire che era una specie di Elvis Presley in bello. Alto con un fìsico prestante, i capelli neri con il boccolo, un po’ impomatati, gli occhi chiari tra il verde e l’azzurro, la pelle abbronzata, il naso piccolo e un sorriso smagliante a trentadue denti. Insomma, Mario, anche se non l’avesse voluto, era un tombeur de femmes per definizione.
Figuratevi quando Carmelina scoprì la cosa.
Fu per caso, un giorno che venne anche lei nel giro della mattina sotto le finestre della mensa; essendo Anna a guidare la Packard Sedan lei faceva da secondo pilota. Quando mia madre rallentò per dare tempo ai cuochi di accorgersi di noi Mario era lì, bello, in vista, sembrava che ci stesse aspettando per fare scivolare nel mio grembo dolciumi e carne in scatola.
Carmelina che era rapida di riflessi anche se lenta nei movimenti, restò folgorata manco fosse stata il tedesco di Sant’Antonio. I suoi piccoli occhi si dilatarono come genitali pronti a una penetrazione, le gote arrossirono e la bocca restò aperta in un’espressione tra lo stupido e lo stupito.
Il suo corpo tozzo si fermò all’istante ma si vedeva che aveva raccolto le forze, pronta allo slancio come un gatto che ha improvvisamente visto un passero davanti a sé.
Sfortunatamente per lei ma, fortunatamente per noi, Mario neanche la vide e il passero volò via chiamato altrove dai suoi doveri. Il fatto che lui non avesse visto lei, però, in conclusione, non cambiò i termini del problema perché lei aveva visto lui e, da quel momento, non ebbe più pace. Se avesse potuto avrebbe trascorso le ventiquattrore della giornata davanti alle finestre della mensa, vi avrebbe messo le radici. Il problema della lingua per lei non esisteva, non perché lei sapesse qualche parola di inglese ma perché, notoriamente, quando l’amore erompe, ci si parla con gli occhi. E, in questo stato di esaltazione amorosa protratta e prolungata la vittima sacrificale ero io che, involontariamente, rappresentavo l’unica ragione per la quale lei potesse uscire di casa e correre da Mario. Invece di portarmi ai giardinetti della Cisa dove magari potevo anche giocare con altri bambini, socializzare, come si dice oggi, mi portava sempre sotto le finestre della mensa dove lei esercitava il suo piantonamento permanente e, ogni volta che lo vedeva passare, nel locale, aldilà delle grate, dai suoi cavalli di Frisia sibilava la sua invocazione lamentosa:
– Mario, oh Mario…!
La cosa, nel tempo, si ripeté cento, mille volte e, ogni volta l’invocazione diventava più vibrante e appassionata:
Mario, oh Mario … !
Lui sempre più bello, passava e sembrava neanche accorgersi di lei come se ubbidisse a una convinta disciplina interiore che gli suggeriva di non curarsi di lei, non guardare e passare.
Finché un giorno non ne poté più e, dopo l’ennesimo:
Mario, oh Mario…! sentenziò:
Camalina, Camalina disgusting!
e sparì, inghiottito dalle sue pentole.
Lei frenetica dopo che lui, per la prima volta, le aveva rivolto la parola, aggrappata al manubrio della Packard, si chinò verso di me e, congestionata in volto, commossa dalla felicità, mi chiese:
Che ha detto? Hai capito che ha detto?
Dal basso della mia carrozzina, soffrendo terribilmente il suo stato d’animo, non trovai niente di meglio che dire:
– Non ho capito Carmelì….lo sai che non parlo ancora l’inglese; ma, se ti devo dire la verità, credo che… non è cosa, Carmelì!
E, dopo un breve silenzio che sembrò durare una vita aggiunsi:
S’è fatto tardi, Carmelì, andiamo a casa.

*_*_*_*

Roma, Maggio 2009

  1. Omero – Iliade – Libro VI
  2. L’armistizio firmato a Malta da Badoglio il 29 settembre fu detto “lungo” per distinguerlo dal “corto” firmato il 3 dello stesso mese a Cassibile SR dal Generale Castellano.

 

Subscribe
Notificami

0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments