LA LAMPADINA/RACCONTI – La ricerca della fine del mondo

La ricerca della fine del mondo
Parte prima: Cape York Australia
di Giovanni Verusio

Fin dall’antichità classica gli uomini furono ossessionati dalla ricerca della fine del mondo. Questa fu, per molti secoli posta, alle Colonne d’Ercole, lo stretto di Gibilterra. Tolomeo nel II° Secolo la spostò nell’Atlantico, alle Isole Canarie. Benché non mancasse chi (es. Pitagora) autorevolmente ne sosteneva la foma sferica sin dal VI° Secolo A.C. la Terra era in genere concepita come una grande frittella i cui bordi occidentali corrispondevano appunto con l’Oceano Atlantico. Si era altresì coscienti che a sud esisteva l’Africa ed a oriente l’Asia, ma dove queste enormi masse di terra finissero, nessuno sapeva dire. Sopra la frittella era appoggiata la volta celeste con il Sole, i pianeti e dietro di essi le stelle che, tutti insieme, giravano intorno alla Terra. Questa concezione durò quindici secoli fino a che Keplero affermò che la Terra era sferica e ruotava, assieme ai pianeti, in un universo eliocentrico, cioè intorno al Sole che stava fermo.
Come si può, nei nostri giorni, arrivare alla fine del mondo? La frittella non c’è più quindi è inutile cecare di arrivare ad uno dei suoi bordi. Ci sono però due metodi per raggiungere il nostro scopo: uno materiale e l’altro è virtuale.
Il metodo materiale può dare una soddisfazione  parziale, consentendo di raggiungere solo la fine di uno dei continenti che esistono nel pianeta che noi  chiamiamo: Terra. Il metodo virtuale, quello sì ci consente di raggiungere a Nord il culmine: un punto invisibile identificato solo matematicamente dove, in un centimetro quadrato, la Terra comincia ad esistere, estendendosi via via che ci si allonta da quel punto, per diventare una sfera di 510 milioni di chilometri quadrati ( con solo, però, 150 milioni terre emerse). È l’inizio della Terra per chi sta in quel punto, ma è anche la fine per chi ci arriva.
Qui di seguito sono brevemente descritti due miei viaggi che intrapresi per raggiungere la fine del mondo con metodo materiale ed uno con metodo virtuale.

I° CAPE YORK AUSTRALIA

Chi indugi con lo sguardo su una carta dell’Australia, vedrà che “sopra” cioè a Nord essa presenta un’ampia e profonda infossatura denominata il Golfo di Carpentaria, chiusa a Occidente dal Arnhem Land: una immensa distesa di giungla, fiumi e acquitrini,  abitata solo da aborigeni, priva di strade e in gran parte ancora inesplorata.
Vi sono state costituite tre riserve aborigene. Per dare un’idea delle dimensioni del territorio: una sola riserva copre 93.000 Kmq.. Le riserve sono  accessibili soltanto con  il permesso, assai difficilmente ottenibile, della Agency for the Protection of Aboriginal Rights che dà l’impressione, di non volere che si veda come vengono trattati piuttosto che proteggerli.
A destra, cioè a Oriente, il golfo è invece chiuso da una penisola che si estende da Sud a Nord e termina in una punta che si protende nello Stretto di Torres, un braccio di mare largo 150 Km., che la separa dalla costa meridionale della Papua Niu Ghini. Quella punta si chiama: Capo York ed è il punto più a  Nord dell’Australia.
La penisola di York è lunga circa 300 Km. ed ha una forma che evoca la punta in ossidiana di una lancia preistorica. È disabitata, salvo che per alcune comunità di aborigeni che occupano, non saprei dire con quanto entusiasmo, aree loro riservate, ben discoste dal sentiero che mena al capo. Di conseguenza non ho visto nessuno. Adesso non è più necessario munirsi di un permesso per entrare nel territorio, ma è consigliabile avvertire i Rangers per radio della propria venuta. Le strade, o meglio, la pista, di accesso è la peggiore dei Northern Territories, il che è quanto dire. Si può pensare di risalire la penisola via terra soltanto in un convoglio di almeno  due 4WD, in modo che l’una possa disincagliare l’altra se, come è molto probabile, si impantanerà nel fango o nella sabbia della pista. Comunque si deve calcolare una velocità media di 20-30 chilometri orari.
Non mi sentii quindi di affrontare i 7-10 giorni di guida massacrante, in un caldo micidiale tra nuvole di aggressive zanzare, e le legioni di ragni, serpenti e coccodrilli che mi aspettavano nei guadi dei numerosi fiumiciattoli che si versano nel Golfo di Carpentaria. Forse vilmente, trovai a Coen, alla radice della penisola, un posto su un Chessna che mi avrebbe portato sino alla pista di atterraggio di Jacky-Jacky vicino a  Bamaga, l’ultimo luogo abitato  prima del Capo.
All’arrivo, una Land Rover ha raccolto noi quattro passeggeri del Chessna e, percorrendo una disastrosa pista per circa venti chilometri, compreso il guado di due fiumi (senza coccodrilli), ci ha depositato in uno spiazzo polveroso dove, sulla sinistra, era stata costruita una baracchetta che portava l’insegna: Croc Shop sotto un enorme coccodrillo di mare impagliato, legato sulla facciata.
«È un salty» ha detto l’autista indicando il coccodrillo con una certa reverenza. Sì, perché in Australia i coccodrilli vanno anche per mare, fino a due miglia dalla costa, per cui dormire sulle spiagge  è del tutto sconsigliabile. Nel Croc Shop si potevano acquistare: magliette, cartoline illustrate, carte delle piste della penisola e prodotti artigianali aborigeni di seconda scelta, ma soprattutto la merce più preziosa per il viaggiatore giunto fino a lì: acqua potabile.
Dal Croc Shop si può proseguire soltanto a piedi: sono dieci chilometri fino al Capo e, con quelle temperature non sono uno di troppo. Ciò non è dovuto soltanto alla mancanza di una pista carrabile, ma al fatto che il territorio a Nord del Croc Shop costituisce un’area sacra, una porzione di quella “Terra dei Canti” che il Libro di Bruce Chatwin ha reso popolare anche in Italia. Non solo è vietato di costruirvi qualsivoglia edificio permanente, sia agricolo, industriale o turistico, ma i visitatori sono tenuti ad osservare una serie di regole e divieti, sanciti dal Sacred Sites Act, che sono indicati in un cartello all’inizio del sentiero: è vietato fischiare, cantare o suonare strumenti musicali, si deve parlare soltanto a bassa voce, è vietato uscire dai sentieri e fumare, ed  è  consentito fare i propri bisogni soltanto in un piccola area dedicata nelle immediate  vicinanze del Croc Shop.  È altresì vietato il campeggio con derivante divieto di accendere fuochi e cucinare all’aperto.
Mi sono avviato con due borracce d’acqua ed una certa qual ansia per ciò che mi aspettava. Inizialmente il sentiero attraversava una foresta di eucalipti e bassi cespugli di Spinifex, con infiorescenze gialle e spine invece di foglie e, per rendere il bosco  ancor più accogliente, piante antropofaghe che aprivano nel sole nascente i loro calici sul cui fondo sostanze zuccherose attirano gli insetti per intrappolarli e digerirli. Le foglie degli eucalipti sono grige e non verdi e pendono dai rami come cenci bagnati, ma non cadono mai, mentre i tronchi si squamano come serpenti. Nell’aria galleggia una specie di tranche, una vibrazione ipnotica della luce che produce la sensazione che il risveglio è rinviato all’infinito. Udivo strani, sommessi rumori: uno sfrascare (serpenti?) zampettare (dingos? Speriamo di no), picchiettare sul suolo (canguri?), che si  producevano al mio avvicinarsi e si interrompevano non appena ero giunto assai vicino alla sorgente. Poi, inaspettatamente, il silenzio è stato squarciato da un suono agghiacciante simile all’urlo di un bambino sgozzato nella culla, seguito da uno sguaiato starnazzio, prodotto da uno strano uccello che si allontanava singhiozzando, con il precario volo di un pollo. Insomma, il procedere destava qualche preoccupazione e mi guardavo continuamente intorno per vedere da dove sarebbe giunto l’inevitabile attacco. Finalmente la foresta è finita: dinanzi a me si stendeva una landa sassosa e glabra, era il pezzo del percorso più faticoso: una fornace ove i sassi riflettevano il calore di un sole impietoso che nel frattempo era salito nel cielo.
Il sentiero si è volto decisamente a Nord ed ecco, quasi all’improvviso, è comparso il mare oltre il Capo che si protendeva nello Stretto con davanti due isolette: Eborac e, a testimonianza della scarsa fantasia degli esploratori dell’epoca, York Island. Sulla sinistra  si stendeva una grande spiaggia bianca, ma  non ho avuto la forza di scendere dal promontorio del Capo e mi  sono abbattuto sul primo sasso piatto  che ho trovato, attaccando con impeto la seconda borraccia.
Finalmente ci ero arrivato, le mie scarpe (malconce) stavano calpestando il suolo dove finiva un continente: dietro di me  e dietro a quegli scogli che si tuffavano nel mare lì sotto c’erano  più di 7.5 milioni di Kmq. di foreste, deserti e città, circa venti volte l’Italia, c’erano i suoi 25.5 milioni di abitanti, bianchi, gialli e neri, c’erano tutti i serpenti, i ragni, i cammelli selvatici ed i coccodrilli che facevano dell’Australia il continente con la fauna più pericolosa, meno abitato (salvo l’Antartide),  meno esplorato e con la popolazione aborigena più misteriosa del nostro pianeta. Ero sull’orlo di quel mondo, ad  un confine virtuale oltre il quale, a poche miglia di distanza, oltre lo stretto, tutto sarà diverso: l’aspetto fisico degli abitanti, le loro lingue, religioni, miti e cerimonie, l’aspetto delle mille isolette disperse nell’immensità dell’Oceano Pacifico.

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1 Comment
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Elisabetta
10 Gennaio 2024 20:39

Ottimo come tutti i tuoi racconti di viaggio. Il lettore viene trascinato nei luoghi da te descritti e assorbe le tue impressioni.