CULTURA – Santo Stefano – Ventotene… Sfogliando le memorie di Luigi Settembrini

L’isola di Santo Stefano ha preso il nome da una piccola chiesa costruita sulla sua sommità in onore di papa Stefano, monaco cistercense, e dove poi a fine 1700 fu costruita, per conto di Federico IV, un grande carcere, rimasto in funzione fino agli anni Sessanta.

Un progetto faraonico dovuto al maggiore del Genio Antonio Winspeare e dall’architetto Francesco Carpi. Fu costruito seguendo i principi, molto avanzati per quell’epoca del filosofo Inglese Jeremy Bentham, per il recupero dei prigionieri.
Il progetto del carcere, denominato Panopticon, consisteva in una costruzione semi circolare attorno ad una torretta centrale in modo che, da questa, fosse possibile sorvegliate tutte le celle con un solo individuo e senza che gli stessi detenuti ne sentissero un vero e proprio controllo.
Negli anni, numerosi i politici che vi furono rinchiusi, da Pertini, Amendola Terracini poi banditi, perfino Gaetano Bresci che uccise il re d’Italia Umberto I di Savoia, poi Benito Lucidi assassino e grande evasore, unico che riuscì a fuggire dell’isola.
Uno scoglio, così lo definiva Luigi Settembrini.
Per qualche anno, con i figli piccoli, abbiamo passato una settimana d’estate a bordo di una barca in quel formidabile porto romano di Ventotene, ancora quasi intatto.
A quell’epoca tanti ospiti e amici e tutti vogliosi di scoprire il famoso carcere. In uno dei week end più divertenti con Lalli, Luigi e padre Caprile, nostro padre spirituale.
Luigi, ci convinse e cucinò una ottima zuppa di pesce con l’acqua minerale e 4 pescetti della più infima specie pescati dai nostri figli.
Comunque, l’obbiettivo di ogni amico che arrivava, era sempre il carcere.
Era una impresa scendere a terra “sullo scoglio” se non con un mare calmo e senza vento. Fino agli anni Novanta il carcere era accessibile, incustodito, poi chiuso, ora sembra nuovamente aperto con effettuate tutte le opere di mantenimento necessarie.
Entrare nel grande piazzale all’interno della costruzione, nel silenzio più assoluto, si veniva presi da un senso di sconforto misto a meraviglia. Nel sottosuolo è nascosta una grande cisterna di acqua dolce. A quel tempo si poteva accedere alle scale e visitare le celle che guardavano solo all’interno, la maggior parte avevano sui muri i segni dei giorni che i detenuti tracciavano in previsione di una, chissà, possibile uscita.
L’ultima volta, oramai qualche anno fa, siamo sbarcati sull’isola con Stefano Cencelli e altri amici, eravamo arrivati presto da Ponza a bordo del Naiaran, anche in quella occasione fu una impresa scendere a terra. 
II carcere poi era stato sbarrato e quindi impossibile entrarci. Comunque fu un bel giro all’interno dell’isolotto, ancora erano visibili le zone dove alcuni degli ergastolani lavoravano, e si occupavano delle faccende di tutti i giorni; il giro terminava al grande cancello del cimitero, all’ingresso una scritta in ferro battuto «Qui finisce la giustizia degli uomini, qui incomincia la giustizia di Dio.»
Possiamo solo immaginare le giornate terribili trascorse al suo interno dai carcerati nei differenti periodi, e la testimonianza di Luigi Settembrini del suo ingresso nel carcere dove fu incarcerato per 7 anni ce ne dà un’idea. Precedentemente, nello stesso carcere, fu rinchiuso per 14 mesi suo padre. Sono dei brevi estratti dalle sue memorie.
1. «Difficilmente ci si approda e solo e voltando con piccoli battelli, Il mare che lo divide da Ventotene è sempre agitato e i dintorni irti di scogli…nel 1799 vi furono rinchiusi ed incatenati oltre 500 reclusi condannati a vita che nelle altre galere erano più feroci ed incorreggibili e ricetto di scelleratissimiPoi prigionieri politici e anche il padre mio recluso per 14 mesi….una tomba dove sono sepolti circa 800 uom. ini vivi: chi si avvicina a S Stefano vede dal mare su l’alto del monte grandeggiare l’ergastolo. Per scendere sull’isola si deve saltare su di uno scoglio coperto d’alghe e sdrucciolevole….cominciando a salire per una stradetta erta e scabra, si trova in prima una vasta grotta nella quale il provveditor dell’ergastolo suol serbare sue provvigioni.

2. Non si può dire che tumulto d’affetti sente il condannato prima di entrarvi: con che ansia dolorosa si sofferma e guarda i campi, il verde, le erbe e tutto il mare, e tutto il cielo, e la natura che dovrà più rivedere… con che desiderio cerca di suggellarsi nella mente l’immagine degli oggetti che gli stanno intorno.
3. Fermato innanzi la terribile porta vede una strada lunga… si entra in un cortile a quadrilatero…Lì sei circondato dagli aguzzini con i loro fieri ceffi, i quali ti ricercano e scuotono le vesti (ti mettono i ferri o le catene)… uno scrivano ti domanda il nome e le Tue qualità personali. Il comandante dopo averti biecamente squadrato da capo a piedi e ti avverte di non giocare di non tenere armi, di stare tranquillo… altrimenti le battiture e la segreta.
4. Una metà delle celle del primo piano è destinata per un centinaio di condannati ai ferri. Nell’altra metà sono tutti gli ergastolani… i soli condannati ai ferri hanno la catena che li accoppia, possono passeggiare nel cortile. Tra essi i fortunati vanno soli, portando o tutte le sedici maglie della catena o pure otto maglie: i fortunatissimi ne portano quattro e fanno uffizio di serventi o cucinieri, votano i cessi, portano acqua, vanno a spendere alla taverna: sono beati quei pochi che escono fuori a lavorare la terra. Gli ergastolani non hanno catena; ma nessuno può uscire dal suo piano e dal suo scompartimento, un tempo nessuno poteva uscire della sua cella. Queste divisioni sono necessarie per impedire le continue risse che nascono per stolte e turpi cagioni, e pel sempre funesto amore di parti; dappoiché questi sciagurati, che una pena tremenda dovrebbe unire, sono divisi tra loro secondo le province: e siciliani, calabresi, pugliesi, abruzzesi, napoletani si odiano fieramente fra loro, spesso senza cagione e senza offese; e se per caso si scontrano si lacerano come belve e si uccidono. Non si cerca di spegnere questi odi di parte, perché per essi si hanno le spie, si vendono favori, si fanno eseguir vendette, si fa paura a tutti: una x è l’arte di opprimere, ed ogni malvagio la conosce. Per questa condizione de’ luoghi e degli uomini, gli ergastolani non hanno altro spazio che le celle e la stretta loggia, dalla quale invidiando guardano il cortile dove non possono passeggiare, ed il cielo che è terminato, dalle alte mura dell’ergastolo, e che, come un immenso coverchio di piombo, ricopre il tristo edifizio e ti pesa sull’anima. Se passa volando qualche uccello, oh come lo riguardi con invidia, e lo segui col pensiero e con la speranza stanca, e con esso voli alla tua patria, alla tua famiglia, ai tuoi cari, ai giorni di gioia e di amore, che sempre ti tornano a mente per sempre tormentarti. Ma neppur puoi star molto su questa loggia ingombra di masserizie e di uomini che ti urtano, gridano, cantano, bestemmiano, accendono il fuoco, fendono leghe: e poi nel cortile non vedi che condannati trascinare penosamente le sonanti catene, taluno d’essi con oscena voce andar gridando: «Vendiamo e mangiamo»: spesso vedi lo scanno sul quale si danno le battiture, spesso la barella con entro cadaveri di uccisi. Il vento ti molesta, il sole ti brucia, la pioggia ti contrista, tutto che vedi o che odi ti addolora, e devi ritirarti nella cella.»
Luigi Settembrini continua con le sue memorie e continua la descrizione del carcere e degli ergastolani reclusi, ma sarebbe troppo lungo.

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Renata Ferrara Pignatelli
10 Giugno 2024 17:55

Grazie, Carlo! Indimenticabile, sconvolgente la visita al carcere di Santo Stefano. Le parole di Settembrini ne danno l’idea… in quel luogo non c’era solo la privazione della libertà, che basterebbe a punire qualsiasi reato; c’era una violenza tale che era quasi privazione della vita stessa