LA LAMPADINA/RACCONTI – La ricerca della fine del mondo – Parte terza – Polo Nord

La ricerca della fine del mondo
Parte terza: Polo Nord
di Giovanni Verusio

 

E tu dicevi a te: «Più oltre»
Sparivano i due solchi in un tumulto
raggiante, informe, immenso.
E tu: «Più oltre»
D’Annunzio: la Canzone di Umberto Cagni

Quando siamo scesi a Murmansk dall’aereo da Helsinki, la prima cosa che ci ha confrontato è stato un portale sul cui arco stava scritto Tamóẑnja, Dogana. I doganieri russi si comportavano in modo incomprensibile: bisognava esibire tutto il materiale fotografico e dichiarare su un modulo la marca e il numero di serie anche dei singoli obiettivi. Forse volevano impedire che li vendessimo in Russia o almeno poterne tracciare il trasferimento, per impedire che gli obiettivi telescopici fossero usati a fini di spionaggio.
Murmansk è l’unico porto russo sul mare Artico che resti libero dai ghiacci tutto l’anno.
Qui, durante la Seconda Guerra Mondiale, arrivavano convogli degli Alleati con i loro rifornimenti per i sovietici.
Scolpita nella pietra sul lato sinistro del fiordo, una enorme scultura ricorda i soldati ed i marinai che persero la vita per arrivare fin qui.
La città si stende sul lato destro del fiordo: sono casermoni grigi dell’epoca di Kruscev, sotto un cielo decisamente grigio, in riva ad un mare di un bel grigio perla: unico tono visibile di colore era la nave interamente dipinta di rosso vivo, attraccata alla banchina: era il rompighiaccio Sovetskij Soyuz (Unione Sovietica) con la quale arriverò, o almeno speravo di arrivare, al Polo Nord.
Il rompighiaccio è lungo 150 metri, stazza 23.000 Tons., i suoi due reattori atomici gli consentono di sviluppare 75.000 HP sulle tre eliche che lo spingono fino a 21 nodi.
La “Stella Polare” con la quale il Duca degli Abbruzzi tentò la stessa impresa nel 1898 aveva una “macchina a carbone” che sviluppava 60 HP e la spingeva al massimo a 7 nodi: infatti affondò in un fondale di cinque metri, nella baia di Toeplitz dell’isola del Principe Rodolfo, che fa parte dell’Arcipelago di Francesco Giuseppe.
Dopo 24 ore di navigazione, dalla foschia luminescente abbiamo scorto sorgere dal mare un dorso bianco, troppo lungo per essere quello di una balena: è il primo piccolo pezzo di ghiaccio che non può ancora aspirare alla dignità di iceberg. Poi, all’improvviso, si sono affollate intorno alla nave  una quantità di macchie bianche, sorte dalla profondità del mare come per il tocco di un misterioso sciamano.
Nella notte mi sono svegliato: la nave beccheggiava, si imbarcava di lato, gemeva, tremava, si arrestava e ripartiva aggredendo come un ariete il pack che oramai presentava uno spessore di due-tre metri. Il rompighiaccio ci saliva sopra con la prua corazzata, lo spaccava con il suo peso, affondava nell’acqua e ricominciava con i blocchi successivi. Il rumore era assordante nelle cabine di prua. E così siamo andati avanti per quasi tre giorni.
L’elicottero con cui vogliamo fare delle riprese dall’alto, è un venerando bi-turbina russo MI-2. La vernice all’interno è tutta scrostata e manca il sedile posteriore, sostituito da una cassetta da frutta rovesciata e ricoperta da un tappetino  verde. Sono salito con l’operatore della RAI e Yemadi, un agente del KGB con tanto di mitra, in funzione anti-orso bianco. L’elicottero ha alzato la coda con un grande frastuono e la nave ci è sfilata sotto. Intorno a noi, a 360 gradi si estendeva il pack, il mare ghiacciato: una sterminata pianura bianca senza alcun punto di rifermento.
Quando il GPS segnava 86.31 gradi nord, abbiamo urlato al pilota di atterrare sul pack.
È il punto estremo a Nord, raggiunto dal Comandante Cagni nella spedizione del Duca.
Scendiamo nella neve profonda e deponiamo una corona di fiori (finti) portata dall’Italia su un piccolo menhir di blocchi di ghiaccio. Accanto al menhir infiliamo nella neve una bandiera italiana e salutiamo militarmente.
La piccola cerimonia genera una certa dose di commozione nel ricordare quegli uomini temerari che fin qui giunsero su slitte trainate da 140 cani (quasi tutti mangiati), dormendo per 132 notti all’addiaccio con temperature che raramente salivano oltre i quaranta sotto lo zero.
L’agente anti-orso si è appisolato, ma il pilota dell’elicottero si sbraccia e indica l’orizzonte dove si profila una nube scura: vuole tornare indietro il prima possibile, anzi subito. Arrivando sulla nave, che ha virato per mettersi contro vento, l’elicottero si è abbassato, ma giunto ad un metro dal ponte le turbine hanno emesso strani suoni simili ad una violenta tosse e si sono spente e l’elicottero è caduto sul ponte: battiamo un bel colpo, ma non soffriamo alcun danno, però vengono i brividi a  pensare cosa sarebbe successo se il guasto si fosse prodotto mentre volavamo sul pack. Scendiamo un po’ scossi ed infreddoliti: il gatto nero del comandante ci guarda con ostilità.
I giapponesi si affollavano davanti al GPS della nave sgomitando villanamente. Brandivano macchine fotografiche munite di enormi obiettivi con l’intento di fotografare lo schermo quando segnerà 90° nord. L’altoparlante scandisce le latitudini del punto nave: 89°50’, 89°79’, 89°80’, poi torna indietro: 89°75’, 80°70’. È difficile fermarsi su un punto, perché il mare si muove sotto la nave. Finalmente, dopo un bel po’ di questo tira e molla, il Capitano ha deciso che anche  89°80’975” andava bene e ha ordinato di fermare le turbine e di suonare tre volte la sirena della nave. Nell’affollato ponte di comando si è udita un’ovazione seguita da una tempesta di flash e degli scoppi dei tappi delle  bottiglie di champagne russo che saltavano: siamo arrivati a meno di 100 metri da 90°00’000”: il Polo Nord!
Ho raggiunto un grande traguardo ma, come si suol dire, in pantofole, in una cabina confortevole e riscaldata di una grande nave. Niente di difficile o avventuroso.
Il Polo Nord ha costituito un miraggio, una meta per raggiungere la quale, nell’800 e nel primo ‘900 si sono erogate somme cospicue e sono morti molti uomini audaci.
Non si è trattato di conquistare la vetta dell’Everest, né raggiungere le sorgenti del Nilo, né scoprire un nuovo continente, ma di raggiungere un punto sull’immensa distesa del pack che non è identificato da alcun segnale tangibile, ma è solo un’astrazione indicata sulle carte geografiche sulla base di un calcolo matematico. È stata la mitica gara per la conquista del nulla. Forse ciò fu dovuto al fatto che il Polo Nord  è, con il  Polo Sud, uno dei due punti geograficamente più importanti della Terra: è il cardine su cui essa gira, disegnando, con il suo eterno moto, un’ellisse nel cielo.
È anche il punto in cui si uniscono tutti i meridiani: basta allontanarsi dal Polo per cinquanta metri e poi percorrerne altri cinquanta ad angolo retto per attraversare dieci meridiani e sette fusi orari, uguali a quelli che separano Roma da New York. Al Polo si è in cima al mondo ed ogni passo, in qualsiasi direzione con cui ci si allontani da quel punto è un passo verso sud: lì non esistono gli altri tre punti cardinali. La Terra gira con noi sotto i nostri piedi, ma un pendolo di Foucault ne registrerebbe il movimento al Polo alla stessa velocità che al Musée des Arts et des Métiers di Parigi. Si prova anche una strana sensazione, come se la Terra vibrasse per lo sforzo di resistere alla potente attrazione dei singoli pianeti che con essa ruotano nel sistema solare e come quelle forze siano responsabili del nostro destino.
È stato aperto un portellone di fiancata della nave. Per primi scendono i quattro agenti del KGB che si dispongono a semicerchio a protezione dagli elusivi orsi polari. Poi è sceso un marinaio ed ha piantato nel pack un palo rosso, su cui è scritto ”North Pole” con delle frecce che indicano, in direzioni certo sbagliate, le distanze dalle principali capitali europee. È seguito dai passeggeri giapponesi, slanciatisi naturalmente per primi, che si sono diretti verso il palo, gli hanno piantato accanto la bandiera giapponese, svolto un tazebao e si sono disposti disciplinatamente su due file per le fotografie di rito.
“Che cosa c’è scritto sul tazebao?- ho chiesto alla assistente del fotografo.
“Siamo arrivati al Polo Nord” – mi ha risposto arrossendo e ridacchiando con una mano sulla bocca: deve aver trovato la mia domanda molto indiscreta.
È uscito dal portellone anche un membro dell’equipaggio sventolando una bandiera della Marina da guerra sovietica e con un tappetino sottobraccio. Quello che però ha attirato la nostra attenzione è stato il suo abbigliamento inusitato per queste latitudini: era scalzo ed in costume da bagno.
Si è diretto di buon passo verso poppa, là dove il mare era ancora libero dai ghiacci per il recente passaggio della nave e dove l’equipaggio aveva piantato un ottimistico cartello sul quale era scritto: “plávanie”, nuoto. Giunto sull’orlo del pack, ha svolto il tappetino e ci si è seduto sopra assumendo la posizione di pârsva bakâsana. Dopo qualche minuto di concentrazione si è alzato e, con un urlo, si è buttato in acqua, tirato fuori quasi subito da alcuni compagni già quasi rigido come un baccalà. Sull’orlo della tinozza è stata poi sistemata una corda per chi volesse imitarlo, ma vi sono stati pochi epigoni, salvo un giovanotto svizzero che, calatosi in acqua è svenuto per il subitaneo gelo ed è stato ripescato a fatica dell’equipaggio.
Intanto un gruppo di americani (tra cui l’astronauta Aldrin con l’aria sperduta di: ”chi sono  e dove sono?”) ha disegnato sulla neve un diamond ed ha dato inizio ad una partita di baseball: penguins (che al Polo Nord non ci sono) vs. polar bears: l’unica partita di baseball mai giocata al Polo Nord.
Vicino al portellone, è stato montato dalla boutique della nave un banchetto che vendeva magliette gialle con la scritta: Sovetskij SoyuzPolar Expedition e sagome di orsi bianchi in compensato Made in  USA.
Il Commissario della nave ha anche fatto disporre delle panche ed acceso un barbecue, mentre i passeggeri formavano un cerchio intorno al palo e, tenendosi per mano, cantavano “Jingle Bells” nonostante fosse Agosto e tentavano di ballare sulla neve al suono di lacrimose canzoni russe trasmesse a tutto volume dagli altoparlanti della nave.
Insomma, la “conquista” del Polo era andata in vacca.

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Carlotta Staderini
10 Giugno 2024 19:08

Il titolo di un libro scritto da una amica si intitola “Viaggiare allarga la vita”. Non c’è niente di più vero.