ARTE – Dora Maar, sacrificata al Minotauro

Articolo di Marguerite de Merode Pratesi

Quando Osvaldo Guerrieri, scrittore e critico teatrale nel suo libro Schiava di Picasso evoca la relazione tormentata che il grande pittore spagnolo ebbe con la fotografa Dora Maar, Illustra una delle numerose avventure amorose dell’artista che si compiaceva nel sentirsi paragonato al Minotauro, figlio della regina di Creta Pasifae. Un personaggio mitico mezzo uomo e mezzo animale imprigionato in un luogo da incubo: il labirinto. «Una bestia triste» – scrive la scrittrice e giornalista croata Slavenka Drakulić –«che si nutre di carne umana per sopravvivere».
L’importante profilo artistico di Dora Maar è stato cancellato infatti per sparire dietro alla fama di Pablo Picasso. Di lui, la propria nipotina diceva, parlando delle numerose donne con cui aveva avuto una relazione: «Le ha sottoposte alla sua sessualità animale, le ha domate, le ha stregate, le ha ingerite e le ha frantumate sulla sua tela. Dopo aver trascorso molte notti a estrarre la loro essenza, una volta dissanguate, se ne sarebbe sbarazzato.»
Pochi sanno che dietro a quella donna rappresentata in tanti quadri sotto forma della donna che piange si nasconde una grande figura della storia della fotografia del Novecento.
Dora Maar nasce a Parigi il 22 novembre del 1907, con il nome di Henriette Theodora Markovich, unica figlia di Josip Marcovich, architetto croato che lavora per l’Impero Austro-ungarico e di Julie Voisin, sua madre, che proveniva della borghesia francese. La famiglia Markovich nel 1910 si trasferisce in Argentina, a Buenos Aires, ed è in questa città che Dora trascorre l’infanzia e l’adolescenza. La famiglia rientra in Francia solo nel 1926, quando Dora ha diciannove anni ed una grande voglia di indipendenza. Parigi in quegli anni è la capitale mondiale della cultura e delle avanguardie. Paul Éluard, Jacques Prévert, Brassaï, Man Ray, Jean Cocteau e tanti altri sono i personaggi chiave dell’avanguardia artistica e letteraria dell’epoca. Si respira un’aria di libertà, anche sessuale. Henrietta, diventata nel frattempo Dora Maar, studia all’École et Ateliers d’Arts Décoratifs, vuole diventare pittrice. Frequenta l’Académie Lhote dove incontra Henri Cartier-Bresson, e nasce in lei la passione per la fotografia. Si iscrive all’École de Photographie.
È un momento irripetibile. Entra in contatto con i più interessanti e innovativi maestri della sua epoca. Inizialmente collabora con Brassaï, per poi proporsi come assistente di Man Ray con cui divide lo studio e che la considera una delle migliori artiste della sua generazione. Quest’ultimo le offre consigli, le rivela alcuni trucchi del mestiere e la introduce nella singolare cerchia dei Surrealisti, aprendole le porte a un modo completamente nuovo di concepire l’arte. In questo ambiente, scrittori, pittori e drammaturghi non seguono ruoli rigidi come nella tradizione artistica: le funzioni si intrecciano e ogni nuovo elemento, in particolare se affascinante come Dora, con il suo sguardo magnetico e le sue mani aggraziate, è accolto con entusiasmo.
La Maar si afferma presto come fotografa. Attivista politica di sinistra, percorre le strade di la zone, il quartiere più povero di Parigi, così come quelle di Barcellona e delle periferie di Londra, fotografando senzatetto e persone in difficoltà per documentare la loro sofferenza. Realizza immagini nitide, memorabili e piene di empatia, che si distaccano enormemente dalla perfezione delle foto di moda che le conferiscono fama e successo.
Spinge il medium fotografico in esperimenti sofisticati di montaggi e composizioni creando immagini che oggi appaiono ancora inquietanti, come la mano che emerge da una conchiglia o il Ritratto di Ubu, un’entità strana e difficile da definire, che si dice fosse il feto di un armadillo.
Insieme a Jacqueline Lamba, Lee Miller, Valentine Penrose, Alice Rahon, la triestina Leonor Fini entra a far parte del circolo dei surrealisti. Espone a Tenerife nel 1935, a Londra nel 1936, e dopo, nel 1937 e 1938, a New York, Tokyo, Amsterdam.
Quando conosce Picasso, Dora è una donna libera, il suo lavoro è stimato anche al livello internazionale. Si è appena conclusa una sua relazione turbolenta con George Bataille, il filosofo dell’erotismo, meritandosi la fama di una che trasgredisce.
Picasso la conosce ai Deux Magots, famoso caffè parigino, tramite il poeta Paul Éluard e rimane folgorato da un gioco che la donna esegue seduta sola a un tavolo. Ha la mano guantata di bianco appoggiata al tavolino con le dita divaricate e pugnala con un coltello lo spazio vuoto tra un dito e l’altro, ferendosi di tanto in tanto.. Il pittore si fa dare i suoi guanti insanguinati, li espone su una mensola del suo appartamento e da quel giorno la trascina nel suo vortice. Ne sarà annientata. La loro relazione durerà quasi 9 anni e come è già accaduto nelle precedenti storie dell’uomo, è lui a lasciare la Maar, visto che nel frattempo, nel 1943 aveva incontrato la giovanissima Françoise Gilot.
I nove anni passati con Picasso la distruggono. Viene continuamente umiliata nel confronto con le altre sue amanti: Françoise Gilot, madre di due figli di Picasso e Marie Thérèse Walter, madre di Maja. Precipita in una profonda disperazione. Verrà chiamato Jaques Lacan, il famoso psicanalista, a prendersi cura di lei. Sarà lui a curarla in una clinica poco fuori Parigi. Sarà lui a fare il miracolo e a donarle di nuovo una vita.
E quando Picasso, tempo dopo, andandola a trovare a Ménerbes nella casa che anni prima aveva comprato per lei le dice «ero sicuro che ti saresti uccisa» lei gli risponde «non ti avrei mai dato questa soddisfazione». Comunque non recupera mai il suo brio creativo sacrificato al Minotauro.
Di lei Picasso dirà «Dora per me è sempre stata una donna che piange, è importante perché le donne sono macchine per soffrire». Lei gli risponde con una frase altrettanto pungente: «Pablo è uno strumento di morte. Non è un uomo, è una malattia».

 

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