di Marco Patriarca, Autore Ospite de La Lampadina
Nei primi giorni di Aprile del 1860 Giuseppe Garibaldi, appena arrivato a Torino, ricevette l’invito di Camillo Cavour a una colazione prevista in una saletta riservata del Circolo del Whist in Via Po; riservata perché Vittorio Emanuele II temeva sempre che Cavour, un conte “un poco molto d’idee liberali” come diceva, di quelle idee, con chiunque fosse, non faceva mai mistero. D’altronde, tutti sapevano dalla stampa internazionale chi era Giuseppe Garibaldi: l’Eroe dei due Mondi e l’italiano più famoso e ammirato del mondo. Cavour al Whist ascoltò con attenzione i dettagli dell’ambizioso ma stravagante progetto patriottico garibaldino di invadere mezza Italia con esercito di volontari di almeno mille uomini. Dopo avergli elencato i rischi di quell’idea folle e le conseguenze internazionali di quell’avventura, stava per congedarlo; ma mentre l’ascoltava non riusciva a non simpatizzare sempre di più con la foga di quel nizzardo la cui visione politica dell’Italia lo stava conquistando. Continuarono a parlare finché Cavour alla fine approvò il progetto: «Va bene, mi raccomando Generale!» – gli disse- «stia attento a tutti i dettagli ma, guardi che la spedizione che lei guiderà a nostro nome, lei lo capisce, non potrà essere altro che una “scappata.»
Intanto “la scappata” stava cominciando. A metà Aprile Maxime du Camp, giornalista francese stava attraversando le banchine del porto commerciale di Quarto annesso a Genova dirigendosi alla fine dove era alla fonda il Piemonte, un vecchio piroscafo non commerciale dove, da notizie riservate sapeva che avrebbe trovato un personaggio dal nome di Nino Bixio. Arrivato davanti al Piemonte, dove regnava un grande daffare, chiese ad uno dei marinai di essere introdotto a Bixio. «È occupato con Giacomo» gli dissero. Mentre glielo diceva un signore dall’aspetto poco italiano, alto e ben vestito apparve sulla tolda della nave mentre salutava Bixio in abito quasi militare. Maxime fu invitato a bordo e si presentò mentre Bixio, subito sospettoso di quell’intruso, lo presentava a Giacomo. In quanto a questi, Maxime capì subito che si trattava di un distinto signore inglese, anche se parlava un italiano perfetto con persino un vago accento piemontese. Maxime, presentandosi, raccontò di se: aveva combattuto per Napoleone III che però, dopo il colpo di Stato del ‘52, considerava un traditore. Spiegò che sapeva da uno spione del Nouveau Journal della spedizione garibaldina e di volersi arruolare come volontario anche per poi raccontarla a mezzo mondo. Bixio non confermò nulla ma, dopo aver congedato Giacomo, lo trattenne per avere altre notizie “francesi” che Giacomo forse non avrebbe dovuto sentire. Bixio, felice del nuovo acquisto al gruppo dei Mille volontari solo alla fine dell’incontro gli confessò chi realmente era quel Giacomo: Sir James Hudson plenipotenziario inglese alla Corte di Vittorio Emanuele II. Se quella formidabile spedizione riuscisse a partire, Bixio gli confessò a bassa voce quasi in segreto, quel Hudson lì stava tentando di convincere l’Admiralty inglese a farla scortare da due navi della Royal Navy: «Caro amico – alla fine gli disse- ha capito l’importanza di quel Giacomo lì?»
La questione italiana in quegli anni stava divenendo cruciale in un’Europa già piena di sommosse e di guerre e di incontri diplomatici francesi, austriaci e russi dove quasi tutti i protagonisti politici, consapevoli o meno, mentivano, cambiavano opinione facendone una commedia delle parti storico-politica intricata e improbabile. Una commedia che però alla fine mai fu così ben riuscita. Siamo nel pieno degli ultimi eventi del Risorgimento italiano. -Gli attori protagonisti in Commedia sono Vittorio Emanuele II, Cavour, d’ Azeglio, il ministro degli esteri del Regno di Piemonte e Sardegna Solaro dalla Margarita, Garibaldi, Napoleone III, il Primo Ministro inglese Lord Henry Palmerston, Lord Russell, il suo ministro degli esteri, Sir James Hudson, detto Giacomo, plenipotenziario di Palmerston a Torino, il giornalista Maxime du Camp e Francesco Crispi. Il teatro europeo è quello che ovunque eccelleva nella cultura, nelle scienze e nelle arti, ma politicamente reazionario attraversato da sommosse popolari, furibonde rivoluzioni fallite e abili ma sanguinarie restaurazioni. Come nelle commedie di Pirandello, tutti i nostri attori entrano in scena in un modo e ne escono in un’altro. Vittorio Emanuele II era un sovrano poco Europeo, conservatore amante del Piemonte, della caccia e della Bella Rosina: aveva un alto senso di responsabilità dello Stato dopo lo Statuto Albertino del ‘48 allora incoraggiato dall’ambasciatore inglese a Torino Lord Minto, e nel 1862 ne uscì re d‘Italia. D’ Azeglio e Camillo Cavour erano i due campioni del Regno di Piemonte e Sardegna che erano riusciti a entrare in una sorta di Concerto delle Nazioni grazie alla partecipazione italiana nella guerra di Crimea.
L’ abile Cavour d’altronde l’anno prima aveva anche lui vinto contro l’Austria a Solferino e San Martino grazie a Napoleone III. Il re dal suo canto fingeva di ascoltare con attenzione l’ex onnipresente ministro degli esteri, il cattolicissimo filo-francese Solaro della Margarita che aveva mantenuto per anni la politica estera sabauda in linea con l’Austria, la Francia e la Chiesa di Roma, ma in realtà si fidava solo di Cavour. Da vecchio reazionario, Solaro ancora non capiva che cosa ci facessero a Torino tanti illustri personaggi inglesi sempre in visita da d’Azeglio, Cavour, da Rattazzi e persino presso il re. Di questi il più presente a Torino era il plenipotenziario di Lord Palmerston il citato James Hudson, un conversatore brillante, grande collezionista di opere d’arte, interessato alla vita culturale del Piemonte, ma senza nulla della solita sufficienza inglese. Era stato ambasciatore in Brasile dove si ere battuto contro il commercio degli schiavi che l’Inghilterra aveva messo al bando nel 1815, ed era arrivato a Torino nel 1852 innamorato perdutamente dell’Italia, al punto di essere sospettato a Londra di essere divenuto più italiano degli italiani di cui parlava la lingua alla perfezione. Con lui erano arrivati a Torino in varie riprese il ministro degli esteri inglese Lord Russell, Il giurista John Hicks Beach ed era tornato persino Lord Minto che nel ‘ 48 aveva commentato e collaborato alla stesura delle bozze dello Statuto Albertino.
Tutto ciò non faceva che confermare l’interesse di Palmerston per il ruolo dell’Inghilterra imperiale vittoriana nel tentativo di unificare sotto il Regno Sabaudo un’Italia unita e liberale. Gli inglesi a Torino ammiravano Cavour, D’Azeglio, Rattazzi oltre ogni dire e in quelle circostanze per quasi cinque anni hanno fatto il diavolo a quattro a Torino e a Londra, tramite Emanuele d’ Azeglio ambasciatore a Londra e nipote di Massimo, per favorire ogni iniziativa che potesse incoraggiare la politica risorgimentale di Cavour. Oltre all’amicizia strategica con l’Italia lo scopo strategico e geopolitico dell’Inghilterra imperiale era di tenere il piccolo Regno di Piemonte e Sardegna così strategico per il Mediterraneo, lontano dall’assolutismo e dal dirigismo invasivo della Francia di Napoleone III, ormai tornato dispotico come suo zio, così come dall’oppressione ancora più assolutista dell’Austria asburgica, cioè dagli assolutismi francese e ispano- asburgico, di due potenze cattoliche che hanno dominato mezza Europa per quasi quattro secoli e che ora, a metà dell’800, si trovavano ancora alle prese con i nazionalismi europei scatenati dopo il Congresso di Vienna del 1815.
D’altronde, il vento liberale soffiava ovunque in Europa fin dai tempi della Glorious Revoution del 1688, liberale, pienamente parlamentare e tollerante e, mentre le costituzioni liberali del Belgio e della Grecia (1830) erano state firmate a Londra proprio da Palmerston, persino Leopoldo di Toscana e il Regno delle Due Sicilie avevano “concesso” Costituzioni vagamente parlamentari; anche se restavano regni sostanzialmente ancora illiberali, fra cui quello più illiberale di tutti: lo Stato pontificio.
Verso metà aprile del 1860 cominciò a circolare in Francia la voce che i mazziniani, Garibaldi e forse la massoneria stavano segretamente tramando un progetto “italiano” con Cavour per un colpo di mano in Toscana e forse in Emilia e Romagna, una voce forse messa in giro ad hoc dalla Francia. Poi, alla fine di aprile, con un colpo di mano Nino Bixio e Garibaldi riuscirono a requisire una seconda nave per la progettata spedizione, il Lombardo. A quel punto lo spettacolo del porto di Quarto era divenuto indescrivibile. Fra quella migliaia di volontari che nessuno conosceva, arrivati a Genova dalle città più disparate, alcuni imbarcati anche lungo la rotta, come raccontò Maxime du Canp nelle sue memorie, c’era di tutto: marinai, soldati, scrittori come Giorgio Manin, poeti come il giovanissimo Ippolito Nievo, un centinaio di bergamaschi, molti lombardi, ualche veneto, un paio di preti e alla partenza, nessuno riuscì a far scendere a terra l’unica donna: Rosalia Montmasson, la patriottica moglie di Francesco Crispi che voleva ad ogni costo liberare la Sicilia dall’oppressione borbonica, ed era stato più acceso fautore di quella spedizione. Tutti erano vestiti nelle guise più strane e qualcuno già indossava la camicia rossa mentre e fra l’eccitazione generale sembrava che stessero tutti andando a una festa di paese anziché in guerra. Arrivati sulla costa di Talamone in Maremma qualcuno si accorse che la spedizione era seguita anche se a distanza da due navi. Maxime Du Camp le identificò e subito annunciò con assoluta competenza che si trattava dell’amichevole scorta della Royal Navy al Piemonte e al Lombardo. Mille teste si girarono verso il mare e molti inutilmente si alzarono e si sbracciarono in segno di saluto. Nulla come la presenza di quella prestigiosa scorta a quell’improbabile esercito di volontari malvestiti diede loro la sensazione che stavano facendo qualcosa di realmente storico. I due incrociatori poi sparirono dalla vista e riapparvero tre giorni dopo a Marsala sulle coste della Sicilia. A quel punto Cavour e il re, che non avevano notizie della spedizione da vari giorni, seppero che quell’esercito di scalmanati, informale e poco addestrato, aveva messo in fuga i borbonici a Calatafimi e avevano preso Palermo. A Torino tutti furono presi in contropiede da quella vittoria sfolgorante, soprattutto quando seppero che il governo siciliano era già in mano a Garibaldi e Crispi a nome del Regno di Piemonte e Sardegna. Ma valutarono la portata e le implicazioni europee di quella vittoria solo quando vennero a sapere che l’armistizio con il generale Landi era stato firmato a bordo di un incrociatore inglese.
A Torino intanto, il mondo politico era sbalordito e qualcuno temeva che quel pazzo di Garibaldi ora passasse lo stretto di Messina e continuasse a combattere nel napoletano; pare che lo stesso re, secondo alcune fake news avrebbe tentato di fermare tutto e che lo stesso Cavour stesse per invitare Garibaldi a fermarsi. In Sicilia frattanto, ai mille patrioti si erano aggiunti agitatori di ogni specie, signorotti locali che rivendicavano vecchi diritti e qualche furfante, tutto componeva una jacquerie siciliana per nulla patriottica. A quel punto ogni empatia con il popolo siciliano appena liberato sfumò in Garibaldi deludendo persino il grande siciliano Francesco Crispi. La Spedizione poi, con mille ostacoli posti dalle navi borboniche, riuscì a passare lo stretto e in tutto il napoletano ebbe inizio il più improvvisato e stravagante teatro di guerra mai visto in Europa. A quel punto Cavour tornò in sé e, dopo la battaglia del Garigliano e la fuga di Francesco II, pregò Costantino Nigra ambasciatore a Parigi di rassicurare Vittorio Emanuele II: Garibaldi stava forse per consegnargli l’Italia intera; così diceva il telegramma di congratulazioni che Garibaldi ricevette mentre era a colazione a Chiaia con il suo vecchio amico Alexandre Dumas che forse già lo riteneva perfetto per uno dei suoi romanzi di successo.
Le vicende della campagna napoletana a Napoli sono troppo note per rievocarle a dei colti lampadini: sono state glorificate, condannate, raccontate nelle scuole, ideologizzate, falsificate, derise, scritte in mille libri, poesie, canzoni, slogan, proclami e persino in migliaia di barzellette. Molte furono le reazioni mondiali nella stampa e nella letteratura innanzi all’enormità politica e storica di questi fatti e dopo la promulgazione della Costituzione del Regno d’Italia nel 1861 apparve un esercito di personaggi dello spettacolare caleidoscopio dell’antropologia culturale e politica italiana: Mazzini, Cristina di Belgioioso, Pellico, Nievo, Carlo Pisacane, Pilo, Gioberti, Cattaneo, non sono che un pugno di nomi presi a caso fra migliaia, di personaggi che messi insieme, con tutte le loro storie, sono per vari versi ancora fra noi. Gli italiani da semplici sudditi erano divenuti tutti cittadini e, anche afflitti da tutti i loro problemi di sempre, erano felici di appartenere a una vecchia e onesta monarchia liberale; senza rendersi conto di essere sempre in debito verso la sfida temeraria di quella improbabile “scappata” imprevedibilmente così ben riuscita.
Una volta terminato il lavoro giuridico-politico, la firma della Costituzione del 17 Marzo avvenne in un clima esilarante che echeggiò in tutta Europa a testimonianza dal miracolo diplomatico-politico- militare realizzato da Cavour, Azeglio, Garibaldi e Mazzini, compreso Hudson, e lo stesso d’Azeglio in quell’occasione lesse un telegramma di congratulazioni di Palmerston che menzionava il ruolo diplomatico inglese a Torino. Frattanto, cari Lampadini, da vecchio europeista italiano, vi invito a riflettere: mentre l’Italia quella volta festeggiava sé stessa, in Europa regnava il caos; Napoleone III, non contento del colpo di Stato, nel ‘70 provocò stupidamente la Prussia e a Sedan perse una bella fetta dell’amata Francia, la quale, dopo vari tentativi falliti di restaurazione monarchica, alla fine del secolo finì vergognosamente travolta dall’Affaire Dreyfus. Per suo conto la Germania federata da Bismarck, dopo grandi riforme sociali, divenne quasi subito militarista e illiberale e finì per gettare le premesse dei due tentativi di suicidio europeo. L’Italia invece, malgrado i suoi mille problemi di integrazione nazionale, restò una monarchia costituzionale liberale. Se, dopo venti anni di fascismo e una tragica guerra persa, al limite di una guerra civile, la Costituzione del 1947 riuscì ad essere firmata e controfirmata solidalmente da cattolici, comunisti, socialisti, liberali, repubblicani e azionisti e altri, (che quasi tutti si erano odiati), condividendone tutti i principi fondamentali, ciò è forse dovuto al fatto che la Costituzione stessa è riuscita a mantenere quasi intatta la sua anima anglo – sabauda: liberale, pluralista, tollerante e parlamentare del 1861. Oggi, constatando con una certa angoscia ciò che sta avvenendo in Europa, fra sovranisti del nulla in cattedra e patrioti che predicano da pulpiti sbagliati, forse qualche acuto lettore di questa lampadina, potrebbe aiutarci a snidare qualcuno di disponibile nell’eterna commedia pirandelliana della politica italiana, dotato di immaginazione e coraggio, per escogitare da parte italiana una nuova “scappata” in Europa per farci riveder le stelle.