Articolo di Beppe Zezza
Sfogliando un quotidiano francese, di prima mattina di una giornata di agosto, mi sono imbattuto in una storia di mare, di sopravvivenza, di fedeltà alla parola data talmente toccante da indurmi a raccontarla per la nostra Lampadina.
Nel lontano 1761 era in corso la Guerra dei Sette Anni. Una guerra che alcuni storici definiscono la prima guerra mondiale perché si svolse non solo in Europa ma anche in America e in Asia. I principali contendenti erano la Francia e l’Inghilterra, al centro delle dispute l’egemonia in Europa e questioni coloniali.
L’Utile, un vascello delle Indie Orientali, capitanato da un certo Jean de Lafargue, fa scalo in Madagascar per approvvigionarsi di viveri ma nonostante la proibizione vigente al momento imbarca anche 160 schiavi e fa rotta verso l’isola di Rodrigues. Senonché ha delle carte nautiche imprecise e si arena su una secca, dalla quale non riesce a ripartire nonostante i tentativi di alleggerire la nave buttando in mare gli alberi, i cannoni e tutto il possibile. Le onde colpiscono la nave sul fianco e piano piano la distruggono.
La nave si spezza in due, metà degli schiavi, che erano stati rinchiusi nelle stive per paura di rivolte, muoiono, gli altri insieme ai marinai cercano salvezza aggrappandosi a dei relitti. Centoventi tra marinai e una ottantina di schiavi riescono a raggiungere la vicina isola di Tromelin (anche se allora si chiamava ‘ile de la sable’): si tratta di un isolotto di 1 Km2 sabbioso, spazzato dal vento ed esposto ai cicloni, circondato da una barriera corallina che ne rende difficoltoso l’approdo, decisamente inospitale.
Sotto la guida del Primo Ufficiale i naufraghi si organizzano. Con i resti del relitto costruiscono due “case” (una per i marinai e una per gli schiavi). Per il cibo non c’è problema immediato perché qualcosa si è salvato dal naufragio ma per l’acqua? I naufraghi non si perdono d’animo e scavano con le mani alla ricerca di una qualche sorgente. Dopo alcuni giorni e alcuni tentativi falliti finalmente trovano una fonte: l’acqua è un po’ salmastra ma …meglio che niente.
Per circa due mesi nutrendosi del cibo razionato, di uova di uccelli, di tartarughe e di tutto quello di commestibile riescano a trovare, i naufraghi sopravvivono, si industriano e riescono, lavorando insieme marinai e schiavi, a costruire un’imbarcazione con i resti dell’Utile. L’imbarcazione che battezzano La Providence può accogliere solo i marinai; gli schiavi vengono abbandonati sull’isola con un po’ di viveri e con la promessa fatta dal Primo Ufficiale che, giunto in salvo avrebbe organizzato una spedizione di soccorso.
il primo Ufficiale, Castellan de Vernet riesce a raggiungere il Madascar con La Providence e viene trasferito insieme ai compagni all’isola Bourbon (oggi la Reunion) e si attiva per rispettare la promessa fatta. Senonché… senonché il governatore rifiuta di organizzare una spedizione di salvataggio – la Guerra dei Sette Anni è ancora in corso, c’è il rischio di un blocco navale – e non vuole rischiare di trovarsi con un maggior numero di bocche da sfamare – rimpatria i naufraghi e si dimentica degli schiavi.
Passano gli anni. Due navi di passaggio scorgono i sopravvissuti, cercano di attraccare, non ci riescono, abbandonano l’impresa, forse segnalandola a qualche autorità ma senza che questo abbia un seguito.
Ma Castellan de Vernet non si dimentica dell’impegno preso, scrive addirittura al ministro della Marina di Luigi XV e ottiene che venga organizzata una spedizione. Sono passati ben 15 anni dal naufragio!
Viene inviata una corvetta. Dopo due tentativi infruttuosi di sbarcare finalmente una scialuppa e una piroga possono attraccare. Sette donne (solo donne!) e un bimbo di otto mesi vengono portati in salvo.
Arrivate in porto le sette donne sono dichiarate libere (ci sarebbe mancato altro!), battezzate e avviate a una vita normale. Qualche anno dopo una delle sopravvissute metterà per iscritto la sua storia.
In anni recenti sono state organizzate spedizioni “archeologiche” per scoprire come quel pugno di uomini fosse riuscito a sopravvivere per tanti anni.
Sono state scoperte, sulla parte più alta dell’isola (7 metri sul livello del mare!) delle costruzioni (abitazioni?) con muri fatti di sabbia secca, di conchiglie e di pezzi di corallo, delle conchiglie trasformate in mestoli, altri oggetti recuperati dal relitto, e contenitori fatti di materiale riciclato e più volte riparato.
Si è potuto ricostruire che la dieta era costituita di tartarughe e di sterne (Gygis alba), le cui piume venivano probabilmente usate per fare dei perizomi, e di pesci.
Molte domande restano senza risposta. Come si è strutturato in micro-società questo gruppo di uomini? Come mai i sopravvissuti sono stati solo 7 e solo donne? Quale è stata la sorte degli altri?
In onore del comandante della spedizione di soccorso, Jacques-Marie Boudin de Tromelin, l’isola è stata battezzata Tromelin.
È una storia toccante di naufragi, di sopravvivenza in condizioni limite, di uomini che all’epoca erano considerati “merce”, di mantenimento della parola data. Robinson Crusoe è un racconto, Tromelin è storia. Questa storia non è dimenticata: è stata oggetto di diversi libri, di edizioni a fumetti per bambini, di un documentario e di una mostra itinerante presentata in diverse località della Francia.
Oggi Tromelin è abitata solo da una stazione meteorologica, è amministrata dall’isola della Réunion e fa parte dei territori francesi di Oltremare, le ultime vestigia dell’impero coloniale francese rimasto sotto la giurisdizione dello Stato centrale anche dopo la decolonizzazione. Da qualche tempo la sovranità francese è contesa dalle isole Mauritius, soprattutto per la pescosità e per la zona economica esclusiva che la circonda.