I RACCONTI DE LA LAMPADINA
BASEBALL A NETTUNO
di Vittorio Grimaldi
Le Corinaldesi erano due. Inseparabili e inscindibili. Quella bruna (Franca) aveva 15 anni, la bionda 16. Avevano entrambe gli occhi azzurri e sembravano gemelle tanto che, con i capelli raccolti sotto la visiera a strisce con il simbolo degli Yankees non si capiva chi era l’una e chi l’altra. Solo quando scattavano verso la prima base e, dopo aver gettato la mazza, si liberavano del berretto con gesto elegante e presuntuoso, si capiva se alla battuta c’era stata la bionda o la bruna: infatti i capelli, non più trattenuti, si scioglievano e, se erano biondi, Piero avvertiva un tuffo al cuore. Se poi giocavano in difesa non si distingueva il lancio dell’una o dell’altra neppure dalla posizione di caricamento. La procedura era la solita. Sia la bionda che la bruna guardavano minacciose gli avversari delle basi occupate, poi fingevano indifferenza nei confronti del ricevitore che, accovacciato dietro il battitore, inviava loro con le dita della mano destra, segnali disperati e criptici per suggerire le traiettorie più ingannevoli. Fin qui il rito era quasi scolastico, eguale sia per la bionda che per la bruna. La differenza non si vedeva neppure quando, dopo aver nascosto la palla dietro la schiena all’altezza del sedere, alzavano le braccia ad arco ed imitando il gesto elegante di una ballerina classica sollevavano contemporaneamente la gamba destra fino a distenderla, prendendo di mira il piatto del battitore. Questa lentissima fase preparatoria si chiudeva di colpo con lanci comunque imprendibili: quelli di Franca per potenza e velocità, quelli della bionda per lo strano effetto impresso alla palla che, all’altezza del piatto, cominciava a roteare come un minuscolo satellite verso terra o verso il cielo, lasciando di stucco il battitore e in visibilio il pubblico di intenditori del “Nettuno baseball club”. Strike! … Strike! … Strike!. Ma, a ben vedere, una differenza riconoscibile c’era fra le due giocatrici: era data dall’esplosione del culetto: alto tondo e pieno quello della bionda che, seppure fasciato dalla tela grezza della tuta, si alzava a mo’ di contrappeso quando, con il lancio, la sua gamba destra si allungava costringendola, per l’abbrivio, a un passo in avanti. Era come un riflesso condizionato, un effetto naturale, forse inconsapevole, di ogni lancio che tutti aspettavano con il fiato sospeso. Ad ogni eliminazione la bionda volgeva uno sguardo circolare sul diamante di gioco. Sorrideva sdegnosa strofinando il guantone sulla coscia sinistra in attesa della prossima vittima e della prossima mossa. Invece, quando il lancio toccava a Franca, il suo mirabile contrappeso, sebbene fosse alto, tondo e pieno come quello della bionda, non s’innalzava allo stesso sublime livello. Inoltre la sua visione finiva per essere oscurata dal perfetto gesto atletico, lasciando tuttavia negli spettatori ammirati un senso di mancato appagamento.
Le Corinaldesi abitavano in una grande casa sul lungomare, tra Anzio e Nettuno, accanto a quella dei nonni di Piero, di fronte alla distesa verde dei pini di Villa Borghese. Franca parlava poco e, fuori dal campo, era un po’ torpida nei movimenti. La bionda, culetto a parte, era estroversa e allegra. Questo, se si escludevano la nonna e le sorelle, era l’universo femminile delle lunghe vacanze d’estate di Piero.
Era stato rimandato in matematica e ogni pomeriggio andava a ripetizione da un bancario che abitava nel centro di Nettuno, a ridosso delle vecchie mura. Era difficile, nei pomeriggi estivi, resistere alla sonnolenza, mentre allineava sul foglio a quadretti espressioni, frazioni o equazioni con i gomiti rabbiosamente appoggiati a un tavolo da pranzo di cristallo nero, che esaltava le impronte delle mani sudate e, alla fine dell’ora di lezione, era velato dalla forfora dell’insegnante che si grattava continuamente la testa con le dita gialle di nicotina.
Mentre studiava, le Corinaldesi, che ogni tanto lo scortavano fino a Nettuno, gironzolavano per la cittadina, in attesa della fine della lezione. Spesso compravano una scatola di Ritz che consumavano tornando verso casa e che finiva ancora prima che giungessero davanti alla fortezza del Sangallo.
La bionda non smetteva di ridere e di parlare. Franca taceva imbronciata. Entrambe indossavano shorts attillati e ciabattavano impudenti e neghittose su zoccoli di legno chiusi da una semplice striscia bianca di cuoio. Una polvere impalpabile come il borotalco aggrediva le loro gambe nude fino ai polpacci abbronzati, salendo dalle continue fratture delle povere mattonelle di cemento grigio che, suddivise in tanti quadrelli, ancora rivestivano, nel dopoguerra, i marciapiedi dei luoghi marini di villeggiatura. Dopo la farmacia Orsenigo, sull’alto muro che circondava Villa Borghese, si apriva un varco. Superato un cancelletto di ferro, dopo quattro scalini, si raggiungeva uno spiazzo di terra rossa ombreggiato dagli eucaliptus. Poco più in là, dietro una rete da pollaio, i giardinieri del cimitero di guerra americano avevano tracciato un campo di baseball quasi regolare: un quadrato di circa 27 m. di lato con le quattro basi su ciascuno dei vertici e la pedana del lanciatore a metà della diagonale che unisce “casa base” con la seconda. Il direttore del cimitero, reduce dallo sbarco, aveva introdotto ai rudimenti del gioco i ragazzi del paese e i figli dei villeggianti che si sfidavano quasi ogni pomeriggio fino all’ora del tramonto. Le due Corinaldesi erano diventate le stelle incontrastate della squadra dei cittadini. Franca, alla battuta, era insuperabile a meno che sul monte di lancio non ci fosse la sorella che ogni tanto veniva prestata alla squadra locale. L’effetto che la bionda, dopo averci sputato, riusciva a imprimere alla pesante palla di cuoio la faceva deviare proprio all’altezza del piatto ma sempre nell’ambito della zona di “strike”. Così, ogni volta, il battitore era costretto a lasciar passare la palla e, se cercava di colpirla, la lisciava. La bionda era diventata così popolare, per le sue doti di lanciatore, che l’equipaggio di una nave da guerra americana era venuto a vederla giocare.
Quel pomeriggio le ragazze si vestirono rapidamente nella buca della squadra di casa che riuniva per l’occasione i giocatori cittadini e i nettunesi. Gli americani si cimentarono alla battuta. Furono eliminati uno dopo l’altro senza un solo “ball” a carico della bionda che, perfettamente a suo agio, appariva eccitata e strafottente in mezzo agli urrah dei marinai. Quando Franca che, forse per sfidare la bionda, aveva accettato di giocare con gli americani, andò alla battuta, la bionda provò un attimo di colpevole rimorso nei confronti della sorella che sembrava più seria e corrucciata del solito. In un conato di generosità decise di darle una chance di fronte a tutti quei ragazzi. Decise dunque di non concedere alla palla il solito effetto stregato. Dopo due “balls” la palla arrivò sul piatto all’altezza giusta, veloce ma senza una piega. Franca, incredula, inflisse alla mazza una rotazione di una violenza pari al grado di frustrazione accumulato dopo le tante eliminazioni subite sempre e solo dalla sorella. Il bolide sarebbe sicuramente finito fuori campo se non avesse colpito come un proiettile il bel viso della bionda, proprio in mezzo agli occhi suoi, blu come quelli della bruna, ma molto più ridenti.
L’ospedale era una costruzione bassa, degli anni ’50, bianca e rosa, dai muri esterni neppure troppo dilavati rispetto agli edifici circostanti. Somigliava, forse anche per le due palme davanti all’ingresso, a uno degli ospedaletti italiani del periodo coloniale, in Libia o in Cirenaica. Subito dopo il piccolo atrio e il pronto soccorso un corridoio immetteva nelle due sale delle lunghe degenze: una grande, con due file di letti color crema e una piccola, per i “solventi” per lasciare spazio al locale dei raggi e alla sala operatoria. Nella camera piccola la vampa del pomeriggio estivo sembrava esaltare il candore delle lenzuola stese sui due letti collocati alla destra della porta di ingresso a due ante. Erano rigide e spesse come la pergamena. I due letti a sinistra rimanevano in penombra. Nonostante l’odore acuto del cloroformio, Piero, entrando, avvertì un piacevole senso di frescura e volgendo lo sguardo sulla destra quasi si rallegrò per tutta quella luce e, al pensiero di lei, venne preso da una gaiezza assolutamente inopportuna ma, subito sopita dalla visione del lato in ombra della stessa camera. Gli intonaci scrostati dietro le testate dei letti di ferro, lo ricondussero rapidamente alla realtà di un luogo eletto alla sofferenza.
La bionda giaceva in uno dei letti “tristi”, a sinistra e sembrava che dormisse ancora sotto l’effetto dell’anestesia ma, quando Piero le fu accanto, sollevò un braccio e come se ci vedesse benissimo attraverso le bende che le fasciavano la testa fino agli occhi, afferrò il mazzetto di viole che lui stringeva fra le mani umide.
Lo accostò al viso, fece un respiro profondo e disse solennemente “Può succedere che io muoia… è per questo che mi hai portato le viole?”.
“No – disse Piero risentito – è per l’odore, non sono mica fiori da morto”.
Le parole della bionda gli fecero venire in mente le croci bianche, tutte uguali, sul prato perfettamente rasato del cimitero di guerra.
“E’ meglio se non muori adesso – disse pratico – domani arriva Joe di Maggio… sarà ospite del Nettuno con la squadra di Gaeta della VI flotta… ha il record dei “fuori campo” allo Yankee Stadium”.
La bionda si mosse appena ma parve interessata.
“Bisognerà mettere un “esterno” al di là della strada – aggiunse Piero – o molte palle finiranno in mare”.
La bionda tirò su con il naso aspirando con gusto il profumo delle viole “ Se lancio io – disse – quello non prende neanche una palla”. Piero notò che si era già dimenticata di morire.
“Stai male “disse preoccupato.
“Gli faccio fare una figura da babbeo” rispose la bionda.
“Un’altra volta” disse Piero “Ora guarisci”.
La bionda si sollevò sui cuscini “Quello non torna più: ho letto che si sposa con Marilyn Monroe”
“E allora?”
“Allora glielo faccio fare io un fuoricampo “ disse beffarda.
“Se lo elimini metteranno una targa” disse Piero sognante. “Sai quanto ci sformano gli americani!”. Poi si ricordò e disse “Non devi giocare”:
“Anche Franca ci sforma” mormorò la bionda.
“Stai buona e riposati” disse Piero “Domani, dopo la partita, ti vengo a trovare”.
Gli alleati sbarcarono a Nettuno nel gennaio del 1944. Anche se Anzio, confortata dagli storici, rivendica a sé quell’evento così poco glorioso, non è solo il cimitero di guerra e il baseball ma sono i muri ancora sforacchiati sulle ville del lungomare e il rottame arrugginito di un mezzo da sbarco affondato proprio davanti alla casa delle Corinaldesi, che testimoniano a favore di Nettuno. Eppure quel giorno a dispetto dei fischi assordanti e dei lazzi dei tifosi, fu il sindaco di Anzio, con la fascia tricolore e la banda in testa, ad accogliere il grande campione italo-americano. Le grida e il vociare scomposto della folla si spensero solo quando la banda attaccò, invece dell’inno nazionale americano quello dei marines, accolto con stupore ma con la mano sul cuore dagli americani presenti: nonostante con ogni probabilità non tutti avessero il diritto di rivendicare come proprie le conquiste dei marines che, come dice la canzone, spaziano dalle colline dell’Alabama alle spiagge di Tripoli.
Joe di Maggio, alto e dinoccolato, firmò un paio di mazze, poi si tolse la giacca, si fece dare un guantone e si avviò a lunghi passi elastici verso il centro del diamante di gioco. La folla taceva e le cicale sembravano essersi prese una pausa di riflessione. Era stata una giornata caldissima e senza vento. Di solito nel tardo pomeriggio si alzava da ponente una brezza leggera. Ma quel giorno il mare silenzioso e senza un’increspatura pareva una lastra di piombo. Perfino il campione aveva il viso magro lucido per il sudore. Sembrò che nascondesse la palla nel guantone. Poi congiunse le mani, fece qualche stiramento in avanti, in alto e all’indietro e finalmente scagliò la palla in direzione di Franca che, alla battuta, lo guardava accigliata, la mazza ben ferma, alta sulla spalla destra. L’arbitro, piazzato dietro al “catcher” (ma ben protetto da un imbottito blu ricavato da un materassino) non ebbe alcuna esitazione: “Ball” urlò quando la palla si smorzò sotto le ginocchia di Franca che non si era mossa di un centimetro. Il secondo lancio parve flaccido come il primo. Al terzo, la palla arrivò un metro davanti al piatto e al quarto cinquanta centimetri sopra la testa di Franca. La ragazza, che non s’era mossa neppure fra un lancio e l’altro, sembrava una statua di marmo. Piero capì che era mortalmente offesa perché, con quattro “balls”, sembrava evidente che il campione avesse voluto regalarle la prima base.
Prima che la gente cominciasse a chiedersi se, con il torrido aiuto di Marylin, Joe di Maggio si fosse rammollito, quello dimostrò quanto valesse e grazie a un suo fuori campo, la VI flotta passò in vantaggio. Quanto a Franca, dopo l’umiliazione e il punto che le era stato praticamente regalato, giocò svogliatamente senza riuscire a far risalire la squadra del Nettuno.
La VI flotta aveva le basi piene quando Joe di Maggio si apprestò, ancora una volta, alla battuta.
Nella buca della squadra di casa i giocatori del Nettuno e “i cittadini” che, insieme, avevano sfidato gli americani e il loro campione, giacevano stremati dal caldo e dalla delusione per la sconfitta imminente. C’era anche Franca, il viso seminascosto da un pallone rosa di chewing gum che, masticato a dovere, si espandeva sempre di più.
“Ci voleva sua sorella” disse uno “la bionda”.
“Peccato che Franca l’ha quasi ammazzata” mormorò un altro, spiritoso.
Improvvisamente il pallone di chewing gum si gonfiò a dismisura sulle labbra di Franca e dopo un istante scoppiò frantumandosi con uno schiocco in mille schegge rosa che rimasero appiccicate sul suo bel viso inondato di lacrime. “Era una battuta” disse, mesto, il giocatore spiritoso. “Sei uno stronzo” esclamò Piero. Ma evitò di guardare Franca. “Godiamoci il finale – disse – Joe di Maggio non è un gran “pitcher” e noi abbiamo un altro “inning” a disposizione”. “Ti dico che lo ha fatto apposta” disse Franca, tirando su con il naso ancora sporco di gomma americana. “No, non l’ha fatto apposta… quello lancia come una mezza sega” disse Piero per consolarla ma senza crederci davvero. Franca si fece coraggio e tornò svogliata alla battuta. Spizzò il primo lancio e fu subito eliminata.
Il campione scelse con cura esagerata la mazza con cui avrebbe dovuto infliggere al Nettuno il colpo di grazia, ne mise insieme tre o quattro e, mentre aspettava il lanciatore, le andava roteando nell’aria con grande eleganza. Erano quasi le otto. Nel cielo pallido affioravano le prime stelle, i grilli non avevano ancora spodestato le cicale e nello spiazzo del campo di gioco, lontano dalle ombre dei pini di Villa Borghese ci si vedeva ancora piuttosto bene.
Quando riconobbe la bionda nella figuretta che marciava rapida verso il centro del diamante si levò dalla folla un brusio sempre più alto che cessò solo quando la bionda giunse sul monte di lancio. Da lì la ragazza si guardò attorno con aria sdegnata e, senza i soliti preliminari, lanciò la sua palla dall’effetto stregato. Una sola volta. Il bel sorriso strafottente stampato sul volto certifica che, prima di svenire, fece in tempo a vedere il clamoroso strike del campione.
Piero non gioca più e neanche Joe di Maggio. Porta ogni anno, un mazzo di viole sulla tomba della bionda, come Joe Di Maggio, su quella di Marylin.