Pro memoria per il viaggio a Trieste e in Istria organizzato da
“La Lampadina – Periodiche Illuminazioni”
20-23 aprile 2017
Cari amici, ho voluto qui scrivere alcuni cenni per comprendere meglio il nostro percorso. Sperando di non annoiarvi ecco quindi qualche riflessione.
La prima cosa da osservare è che pur essendo limitrofe, Trieste e la vicina Istria, nell’età moderna, hanno avuto due percorsi storici in parte sensibilmente distinti.
Per brevità teniamo presente che Trieste, dopo essere stata libero comune, nel quindicesimo secolo è entrata a far parte dei domini austriaci ed è rimasta ben distinta dalla cultura e storia veneziana. Una città prevalentemente italiana, ricco emporio commerciale al tempo degli Asburgo, solo dalla seconda metà dell’Ottocento è diventata irredentista e infine è stata annessa al Regno d’Italia nel 1918. L’immagine anche attuale della città è caratterizzata dagli interventi del periodo austriaco.
Diversa la storia di Fiume, anch’essa prevalentemente italiana, libero comune poi passata agli Asburgo e infine all’Ungheria al tempo della duplice monarchia. Alla fine del primo conflitto mondiale dopo la breve fase dannunziana annessa al Regno nel 1924.
La storia dell’Istria dopo la fase dei liberi comuni è intimamente legata a far tempo dalla metà del Duecento a Venezia tranne un piccola parte interna dipendente dai domini austriaci.
Dal punto di vista geografico l’area di cui parliamo va dalle sponde del fiume Isonzo sino alla displuviale alpina orientale. A questa compagine unitaria si allega l’adiacente città di Fiume e quindi la lunga fascia del litorale dalmata con le antistanti isole, sino alle Bocche di Cattaro – oggi in Montenegro.
L’Istria che vediamo oggi, a parte i ricordi del periodo classico, è con evidenza del tutto veneziana.
Le ferite inferte dalla annessione alla Jugoslavia, la presenza massiccia di popolazioni slave a fa tempo dall’ultimo dopoguerra, la forte assimilazione da parte di Slovenia e Croazia ai danni della restante etnia italiana non sono riuscite a cancellare del tutto la impronta veneziana.
Quindi qualche informazione per spiegare una realtà molto complicata a causa dell’accavallarsi dei fatti storici negli ultimi due secoli.
Per inquadrare l’argomento è importante sottolineare come anche dopo il tramonto di Venezia che aveva avuto il controllo politico su tutta l’Istria e la Dalmazia fino alla Albania (tranne che per Ragusa- Dubrovnik) il modo di vivere italiano caratterizzava la generalità dei centri urbani lungo tutta la costa e nelle isole a prescindere dalla consistenza numerica dei distinti ceppi nazionali. La lingua italiana era la lingua veicolare di tutto l’Adriatico. Anche gli slavi la usavano come lingua della cultura e del commercio. Non vi era una unità politica italiana. Gli italiani sotto l’Austria erano e saranno nei decenni successivi alla formazione del Regno d’Italia parte di Italia al di fuori dei confini politici del Regno.
Non era soltanto una questione di presenza culturale. Gli italiani erano numerosi soprattutto nelle località costiere. Per quanto riguarda la consistenza della componente italiana nell’Alto Adriatico, possiamo prendere a riferimento i risultati del censimento ufficiale asburgico del 1910, prima della annessione all’Italia e prima del censimento italiano del 1921. Quindi dati sicuramente non gonfiati a favore della etnia italiana. Il censimento austriaco stabilì per la Venezia Giulia, ovvero la ripartizione amministrativa cosiddetta del “Litorale austriaco”, escluso Fiume e Dalmazia, che su una popolazione totale della Venezia Giulia di circa un milione (978.385) vi erano 421.444 Italiani asburgici (43%) cui aggiungere un 7% di Italiani “regnicoli” cioè cittadini del Regno d’Italia. Vi erano poi 237.230 Sloveni (24%) e 152.500 i Serbo-Croati (15,5%) e 167.211 di altra nazionalità (17%).
Veniamo all’Istria.
Fino alla venuta di Napoleone e alla caduta della Repubblica nel 1797 l’Istria faceva parte della Repubblica di San Marco tranne nella zona centrale che apparteneva agli stati della casa d’Austria. Dopo più di quattro secoli di dominio diretto veneziano l’impronta dominante era quella veneta e Venezia era la capitale di riferimento, anche quando Trieste assunse un ruolo economico trainante nel bacino adriatico. E questo nella lingua, nell’arte, nella cultura, nel commercio, nelle professioni. Non si poneva, allora, la questione nazionale che sarebbe esplosa a metà Ottocento con la progressiva contrapposizione dell’elemento italiano a quello slavo. L’Istria aveva vissuto le conseguenze di una disastrosa pestilenza del 1630 con un progressivo impoverimento e una forte depressione economica che si sarebbe progressivamente recuperata nel corso del settecento con un rilancio della olivicultura, della vite e della pesca. Parenzo, ad esempio, in seguito alla pestilenza era praticamente disabitata. Più tardi in seguito all’arrivo di immigrati da diverse parti della Dalmazia e dei Balcani nonché da Creta, dopo la guerra di Candia, con una forte comunità veneto-cretese le città ripresero slancio con un forte sviluppo demografico.
Al tempo di Venezia dopo la capitale provinciale Capodistria e dopo Rovigno, economicamente forte per la pesca e il commercio, Parenzo, con lo stato giuridico di città e sede vescovile e centro di professionisti e agricoltori era considerata la città aristocratica e culturalmente importante.
Pola diverrà una base navale e un porto militare importante soltanto dopo la metà dell’Ottocento in quanto strategica per l’Austria nel corso del lungo contrasto col Regno d’Italia dopo che con la terza guerra di indipendenza nel 1866 l’Austria aveva dovuto rinunciare al Veneto.
La caduta della Repubblica nel 1797 trovava la società istriana ancorata al passato e fortemente conservatrice. Pur rimanendo sempre vivo il ricordo di Venezia l’Istria si adattò al dominio asburgico (1797-1805), francese (aggregata al Regno d’Italia dal 1806 al 1809, alle Province Illiriche dal 1809 al 1813) e quindi di nuovo a quello asburgico destinato a durare dalla pace di Parigi del 1814 fino alla fine del primo conflitto mondiale (1918).
Il periodo francese e quindi quello particolarmente lungo sotto l’Austria hanno comportato un susseguirsi di modifiche amministrative (tra l’altro solo nel 1825 le due parti istriane dei vecchi domini veneti e asburgici furono riunite in un’unica entità amministrativa) ma, in particolare, l’emergere della questione nazionale similmente a quanto avveniva nel resto d’Europa con le prime rivoluzioni liberali.
Il periodo 1848-1849, segnato dalle guerre d’indipendenza italiane, vide l’insurrezione veneziana guidata dal veneziano Manin e dal dalmata Tommaseo cui gli istriani diedero il loro apporto. La terza guerra di indipendenza italiana nel 1866 portò al passaggio del Veneto al Regno d’Italia e al distacco dell’Istria dai collegamenti con Venezia e con l’Università di Padova tradizionalmente frequentata da istriani e dalmati. Il periodo della formazione del Regno d’Italia e della perdita del controllo della Confederazione germanica da parte di Vienna (1861) segna un forte irrigidimento della politica austriaca verso gli italiani dell’Adriatico orientale e un marcato appoggio alle aspirazioni nazionali dei popoli slavi ormai maggioritari nella regione dopo la perdita del Veneto da parte austriaca. L’elemento italiano maggioritario sopratutto nelle città e borghi della costa istriana vedeva pregiudicato il suo ruolo dominante da parte dell’emergente borghesia slava che progressivamente fu in grado di formare la coscienza nazionale delle popolazioni slovene e croate maggioritarie nelle campagne. In questi anni l’elemento italiano si sentiva sempre più sottoposto alla minaccia di essere soprafatto da quello slavo. Gli eventi che maturavano in Dalmazia, dove con l’appoggio austriaco i croati prendevano il controllo di tutte le amministrazioni comunali eccetto Zara nel giro di un ventennio, risultava istruttivo.
Tuttavia il periodo 1860-1880 consentì alla componente italiana di mantenere il controllo politico della provincia istriana. Infatti, in seguito alle riforme introdotte dall’Austria fu prevista la elezione di una assemblea rappresentativa, la Dieta, con sede a Parenzo, con al vertice una giunta provinciale, che tra l’altro avrebbe avuto il compito di eleggere propri rappresentanti al parlamento di Vienna. Con le elezioni svoltesi nel 1861 la Dieta a maggioranza italiana decise di non collaborare col potere centrale e per due volte votò per “nessuno” rifiutandosi di designare i due delegati di sua competenza. Col 1880 l’élite italiana sposò una linea irredentista: il timore di perdere la propria identità faceva intravedere la salvezza nella unione politica alla madrepatria italiana. Quest’ultima, però, legata all’Austria e alla Prussia dalla triplice alleanza siglata nel 1882, non assumerà una linea diretta alla annessione del territorio istriano se non coll’avvicinarsi della grande guerra nel 1914.
Nel periodo che precedette il conflitto la Dieta istriana rimase a maggioranza italiana e al parlamento viennese su quattro deputati istriani tre furono italiani alle elezioni del 1873 e del 1879 e in quelle del 1891 toccarono due rappresentanti agli italiani e due ai croati. Nelle elezioni del 1905, con un sistema elettorale diverso, tre deputati furono italiani, due croati e uno sloveno. Analogo risultato nel 1907 e nel 1911. Tuttavia era evidente l’aumento di spazio assunto dalla rappresentanza politica della componente slava e l’incremento della durezza della contrapposizione fra nazionalità.
L’esito della Grande Guerra portò alla annessione al Regno d’Italia di Gorizia, Trieste, della enclave di Zara in Dalmazia e più tardi di Fiume, nonché di tutto il territorio istriano. Per gli italiani fu il coronamento delle aspettative degli irredentisti. Per sloveni e croati che fino all’ultimo erano rimasti fedeli alla duplice monarchia e avevano combattuto contro l’Italia nelle file austriache l’annessione all’Italia fu vissuta come una bruciante umiliazione. Negli anni seguiti alla annessione la politica dal governo italiano scelse la via di una assimilazione forzata delle popolazioni slave imponendo la lingua e la cultura nazionale, seguendo del resto una politica delle minoranze che al tempo era patrimonio comune degli stati nazionali europei e che era praticata con rigore dal Regno di Jugoslavia ai danni degli italiani in Dalmazia.. La frattura fra la componente italiana e slava nella provincia era destinata a radicarsi sempre più. L’impostazione autoritaria del regime del tempo aggravava la situazione: in pratica alla contrapposizione nazionale si aggiungeva quella politica fra fascisti e antifascisti.
E questo risultò evidente nel momento in cui nel 1941 il Regno d’Italia decise di invadere il vicino Regno di Jugoslavia. La occupazione dei territori prossimi all’area istriana e quarnerina era destinata a creare un unico spazio in cui si sarebbe mossa la guerriglia organizzata dai partigiani jugoslavi. In Istria pure l’elemento antifascista italiano dopo il settembre 1943 prese parte alla lotta contro l’occupante tedesco anche se risultò evidente che il ruolo dominante lo avrebbero assunto croati e sloveni sotto la guida del partito comunista. Per la componente slava della provincia si presentava l’occasione storica per chiudere definitivamente la questione nazionale eliminando o riducendo drasticamente la consistenza della storica presenza del gruppo nazionale italiano tra l’altro facilmente etichettabile come fascista. Quale fosse il progetto jugoslavo in quel frangente lo si comprese quando i partigiani slavi presero il controllo di buona parte del territorio al momento del dissolversi del potere civile e militare italiano nel settembre del 1943. In pochi giorni fu messa in atto con sistematicità la eliminazione fisica degli esponenti di spicco delle comunità locali trucidati a centinaia (almeno 600 infoibati in due/tre settimane). Si salvarono i centri urbani, fra cui Pola, in cui per l’esiguità delle bande partigiane non si ebbe la forza di entrare. Ma tutta l’Istria pagò un prezzo molto alto in vite umane. Seguirono mesi di violenze in cui si contrapponevano in una feroce guerriglia i partigiani comunisti ai militari tedeschi e alle unità della difesa territoriale della Repubblica sociale inquadrate dai comandi germanici. Il regolamento finale dei conti avvenne poi nel maggio del 1945, a guerra finita, ed ebbe strascichi anche molti anni dopo il trattato di pace del 1947.
Il conteggio dei deportati e degli eliminati è problematico con stime che oscillano sui 10.000 e con una polemica che non si è ancora esaurita fra chi tende a gonfiare e chi all’opposto a ridurre drasticamente il numero. Quello che è certo è che molti civili furono eliminati a guerra finita. I fatti del 1943 e quanto avvenuto al termine del conflitto hanno causato la uccisione di migliaia di italiani in un tragico regolamento di conti in cui sono stati eliminati non soltanto fascisti e collaborazionisti ma praticamente chiunque potesse opporsi alla annessione alla Jugoslavia comunista, a cominciare dai membri della resistenza italiani. E’ storicamente documentata la uccisione e persecuzione dei componenti dei Comitati di liberazione italiani di Gorizia, Trieste, Pola e degli autonomisti fiumani. Le esecuzioni, le deportazioni, le confische, le nazionalizzazioni e le violenze di ogni genere indussero allo svuotamento progressivo della realtà italiana, al ripopolamento con genti provenienti da diversi paesi della allora Repubblica federativa jugoslava dopo la annessione a quest’ultima.
Il Trattato di pace del 1947 impose all’Italia la cessione alla Jugoslavia di Zara, Fiume e Istria. Trieste avrebbe dovuto essere Territorio libero sotto il controllo delle Nazioni Unite, progetto poi fallito con la conferma della sovranità italiana. Il successivo Trattato di Osimo del 1975 comportò la cessione definitiva alla Jugoslavia della fascia costiera istriana con popolazione anche slovena (Capodistria, Isola e Pirano). La durezza della occupazione jugoslava portò all’esodo della maggioranza della popolazione italiana maggioritaria a Fiume e nelle cittadine della costa istriana.
L’esodo degli italiani ha interessato il 90% della popolazione.
In proposito vi è un annoso dibattito sui numeri. Tradizionalmente si parla di 350.000 persone esodate e quindi potenzialmente interessate a restituzioni e/o indennizzi. Vi sono poi stime riduttive. Tito in un discorso del 29.12.1972 affermò che gli espulsi erano stati 300.000. Diverse fonti prospettano cifre al ribasso. Una ricerca dell’Opera per l’assistenza ai profughi negli anni cinquanta si attesta su 250.000. Quello che è certo è che l’esodo ha radicalmente mutato la bilancia etnica a danno degli italiani. Secondo il censimento jugolavo del 1961 risultava la modesta consistenza della superstite comunità italiana, rilevata in 25.000 persone.
Attualmente la popolazione italiana è ridotta allo stato di minoranza sia in Slovenia che in Croazia. Esiste la Unione italiana come organizzazione che riunisce una cinquantina di comunità italiane presenti nei comuni locali. Esistono scuole e diverse realtà culturali (editoria, teatro). L’unico spazio culturale di livello è offerto dal Centro di ricerche storiche di Rovigno che obiettivamente è un ottimo ente di ricerca di livello universitario.
La fine dei blocchi e l’ingresso di Slovenia e Croazia nella Unione europea hanno progressivamente attenuato le asperità dei contrasti fra i Paesi dell’Alto Adriatico. Anche le associazioni degli esuli hanno prevalentemente accettato le conseguenze della guerra e i trattati che li hanno messi in condizione di esodare pur permanendo seri margini di insoddisfazione e periodici ritorni di polemiche sopratutto verso le Istituzioni nazionali considerate poco sensibili alle aspettative di chi è stato estromesso dal territorio storico di insediamento subendo lutti e danni economici.. La legislazione più recente dopo anni di silenzio ha riconosciuto l’esodo e le stragi delle foibe dedicando qualche sporadica attenzione a un mondo che si ritiene troppo spesso trascurato.
Augurandomi di avervi offerto qualche elemento di riflessione.
Giuseppe de Vergottini