Articolo di Nicoletta Fattorosi Barnaba – Autore Ospite de La Lampadina
Nel mese di agosto, precisamente il giorno 24, i romani si recavano all’isola (Tiberina) per la festa di san Bartolomeo. Arrivavano alla piazza, nel cui centro c’è una guglia a quattro facce con santi entro nicchie, donato da Pio IX nel 1869, a ricordo del Concilio Vaticano I. In questo stesso posto era situato, al tempo dell’isola romana, un obelisco che rappresentava l’albero della “nave”.
Rimase in situ fino al XVI secolo, quando fu smontato e trasferito in parte a Parigi (poi a Monaco) e in parte a Napoli. Fu sostituito con una colonna che, a causa dell’urto di un carro, andò in frantumi e quindi si mise la guglia che tuttora è presente nella piazza.
Alla colonna, ogni 24 agosto festa di S. Bartolomeo, venivano affissi i nomi dei cittadini che non avevano celebrato la Pasqua; nel 1834 tra gli altri apparve il nome di Bartolomeo Pinelli, che rimase malissimo e si scandalizzò perché era stato qualificato miniatore, anziché incisore; il fatto di non aver celebrato la Santa Pasqua era evidentemente marginale per l’illustre artista romano.
San Bartolomeo era uno dei 12 apostoli. Il santo viene generalmente rappresentato nell’atto di tenere tra le mani la pelle che gli fu strappata in una mano e nell’altra il coltello simbolo del suo martirio; oppure come un cavaliere su un cavallo bianco, vincitore sugli spiriti maligni, si crede infatti che possa scacciare i demoni dal corpo dell’uomo e quindi è invocato in tutte le malattie “demoniache”, come quelle che si accompagnano a convulsioni.
A Roma però unita alla festa di S. Bartolomeo ce ne era un’altra molto meno spirituale, ma più godereccia e sentita, quella dei cocomeri.
Più che una festa era il trionfo dei cocomeri.
Così scriveva padre Bresciani: “…I romani sono ghiotti de’ cocomeri; e se la state non se fanno di molte satolle, non ne son paghi”. Ricorda anche nelle sue note che durante un’epidemia di colera fu vietato vendere e mangiare cocomeri, ma i romani di notte andavano negli orti e lì consumavano a volontà il loro frutto prediletto, tanto che alcuni “cadevano malati” e spesso morivano.
La sagra aveva come teatro l’isola Tiberina, il punto più basso della città e quello che era più a contatto con il fiume. Su questa piazza avveniva la celebrazione della festa del cocomero. Sulle “scalette” erano esposti i cocomeri tagliati che rosseggiavano fra le frasche ed erano rischiarati dal lumeggiare del fiume; i cocomeri erano ammonticchiati contro le spallette come le palle di cannone a Castel S. Angelo. Se ne rotolava uno, i ragazzini correvano per rincorrerlo e gustarselo. I compratori picchiavano con le nocche per vedere se il frutto fosse maturo; alcuni pretendevano un “trincetto” per assaporarlo, dal Belli viene definito cocommero de tasta.
In questo giorno, finché non fu proibita, c’era la tradizione di lanciare alcuni frutti nel Tevere, seguiti subito dopo da ragazzetti mezzi nudi che si tuffavano per prendere il dolce frutto; il fatto era pericoloso sia perché i vicini molini, posti sul fiume, spesso nelle loro ruote prendevano qualcuno, sia perché, essendo in agosto, l’acqua era bassa e alcuni sbattevano la testa con tragiche conseguenze.
I cocomerari usavano invitare i clienti a comprare dicendo Taja ch’è rosso! E’ zucchero donne!
Per finire ricordo che a Roma il cocomero è sempre stato ritenuto un frutto completo perché…:” Ce magni, ce bevi e te ce lavi er grugno.”
che gioia reincontrarti qui carissima Nicoletta……..dalle belle serate romane all’ Art Studio Cafe’ !
Molto molto interessante. Ho imparato alcune cose che avrei dovuto sapere in quanto romana del Roma
Cara Alessandra, sono felice che ti abbia fatto piacere avere qualche notizia in più su Roma, città tanto bella, ma anche poco amata. Tutto serve per farla conoscere e apprezzare di più. Grazie Nicoletta