Hanno scritto che Venere, la dea dell’amore, è la più bella delle divinità, ed è, da sempre, considerata come la personificazione per eccellenza del fascino femminile.
Siamo nel 1650 e Velasquez dipinge un nudo femminile di sensuale bellezza; una Venere di cui ritrae il seducente corpo completamente nudo, di schiena. È sdraiata su un letto disfatto e contempla la sua immagine riflessa in un specchio sorretto da suo figlio Cupido. Si intravede appena il suo volto. Velasquez in quegli anni è l’artista più importante alla corte del re Filippo IV di Spagna ed è uno dei maggiori pittori dell’età dell’oro spagnola e del barocco europeo. La tela di cui parliamo le viene commissionata da un aristocratico libertino, don Gaspar de Guzmán, Conte-Duca di Olivares, figlio del primo ministro di Filippo IV, appassionato collezionista d’arte. La vuole appendere sopra il suo letto come un’immagine erotica. Dipingere, all’epoca, il corpo di una donna completamente nudo, è molto rischioso perché la Chiesa spagnola, attraverso il Tribunale dell’Inquisizione, vieta in modo assoluto le immagini o i dipinti di donne svestite (anche se ispirati alla tradizione mitologica). Infatti questo quadro, insieme al dipinto la “Maja desnuda” di Francisco Goya, sono le uniche due opere dell’arte spagnola giunte fino ai nostri giorni, che illustrano il corpo femminile senza veli.
Il dipinto, autografo, è uno delle sue ultime opere ed è l’unico esempio superstite di nudo femminile realizzato dal pittore. L’opera verrà, però, portata in Spagna in un secondo tempo. Già prima di allora, nel mondo spagnolo, dipingere dal vero il corpo di una donna era considerato assolutamente sconsigliato e si raccomandava agli artisti di copiarne solo il volto e le mani. Per le altre parti del corpo ci si poteva avvalere di statue, disegni e stampe antichi e moderni, per raggiungere la bellezza ideale. Sembra che Velasquez, però, fautore del dipingere dal vero, realizza il quadro a Roma alla fine del suo secondo soggiorno italiano, ritraendo una certa Flaminia Triva, giovane pittrice, sua amante. Si fa anche il nome della nobile Flaminia Triunfi, o di una modella chiamata Marta da cui avrebbe avuto anche un figlio.
Si è cercato di attribuire a quest’immagine un significato profondo: la superiorità del vero amore sul desiderio, la fugacità di questo sentimento davanti alla bellezza che appassisce con il trascorrere del tempo. La verità è che non c’è nulla di spirituale nell’immagine. L’ambientazione classica è una scusa per trasmettere una sensualità estetica molto chiara, un apprezzamento della bellezza che accompagna l’attrazione per la nudità. Quello che effettivamente le era richiesto dal committente.
Il quadro molto ambito, passa di collezione in collezione privata fino al 1813 quando, dalla Spagna, viene portato in Inghilterra acquistato da un certo John Morritt e inserito nella sua collezione a Rokeby Park, da dove prende la definizione di “Venere Rokeby”. Nel 1906 entra a fare parte delle collezioni della National Gallery di Londra. Anche il re Edoardo VII contribuisce con 8.000 sterline all’acquisto.
L’opera è celebrata dal “The Times” come “perhaps the finest painting of the nude in the world”. L’operazione mediatica è necessaria per giustificare l’acquisto di un dipinto considerato all’epoca molto audace: “a marvelous graceful female figure…quite nude…neither idealistic nor passionate, but absolutely natural, and absolutely pure; she is not Aphrodite but rather the “Goddess of Youth and Health”, the embodiment of elastic strength and vitality- of the perfection of Womanhood at the moment when it passes from the bud in to the flowers”. Con questi commenti si cerca di eliminare qualsiasi messaggio di ambiguità e l’opera acquista da subito grandissima notorietà per diventare presto il simbolo dello sguardo maschile sulla bellezza femminile. Ma la storia non finisce lì.
Il 10 marzo del 1914, verso le dieci del mattino, la suffragetta Mary Richardson, approfittando della distrazione di un custode del museo, colpisce ripetutamente la tela, che viene squarciata in varie parti con un coltello da macellaio.
Era stata appena arrestata la leader del movimento d’emancipazione femminile, Emmeline Pankhurst, di cui la Richardson era una attiva sostenitrice.
La giovane Mary cercava con il suo gesto violento di tenere viva l’attenzione della stampa riguardo al movimento femminista di cui la Venere Rokeby diventa la vittima innocente.
Al misfatto si farà seguire un restauro molto accurato per cancellare, agli occhi del pubblico, le tracce dell’infelice gesto.
Il quadro è tutt’ora visibile nel museo di Londra e Mary Richardson rimane per la storia “Mary la squartatrice”.
La storia di questo dipinto é intrigante come un romanzo anzi è un romanzo. Alla fine quei segni sulla schiena lo rendono persino più bello. Grazie Margherita di aver raccontato in modo così avvincente questa passeggiata nel mondo dell’arte.
Grazie Elvira. Sarebbe da imbastire un bel romanzo; un pò piccante, un pò romantico, storico e poi sociale e drammatico.. Tante storie in una, ragion per cui ho avuto voglia di parlarvene con questo breve racconto.
Grazie Marguerite. Vorrei tradure in Inglese questo meraviglioso articolo! Sempre dando a te il credito naturalmente. Posso?
Ma certo Mireille! Assolutamente si! Sono lusingatissima lo vuoi tradurre! Nessun problema. Contenta te lo sei goduto!
Divino il tuo articolo, Marguerite, sopratutto per me che ho seguito corsi su Velasquez per ben 3 anni al Louvre MA di questi dettagli il nostro conferenziere non he mai parlato!!!
Grazie infinite et… prends soin de toi.
Cara Manù. Sono così felice ti sia piaciuto. L’intrigante storia di questo dipinto e l’alone di “peccaminoso intento” che ne circondava la storia dalla creazione al suo ultimo destino, mi avevano affascinato! Non ho resistito alla tentazione di scriverne due righe!