Il raccontino che segue è tratto dalle mie note di un ben più lungo viaggio che intrapresi con sei, come me sconsiderati, amici nel 1989 in Rwanda e Congo Zaire per vedere i gorilla di montagna. Riguarda solo la tratta Bukavu – Goma – Rutshuru, la stessa dove Luca Attanasio – Ambasciatore d’Italia, Vittorio Jacovacci – Carabiniere e Mustafa Milambo – Autista sono stati uccisi nell’esercizio delle loro funzioni. A loro dedico queste pagine in sommesso e dolente omaggio
Giovanni Verusio
GOMA
BUKAVU
“Quella è la frontiera” – ci ha detto Ash, il nostro autista Tutsi che ci aveva portato da Kigali in Rwanda con il suo pulmino, indicando un fiume alla fine di una lunga discesa. Era il Rusizi, l’emissario del lago Kivu che segna la frontiera con il Congo Zaire.
La sponda rwandese era presidiata da un solo funzionario, accasciato sotto un ombrellino bianco, vede e viola. Superato il Rusizi su un Bailey Bridge, abbiamo trovato, sulla sponda zairese ben sei satanassi in una approssimativa divisa dell’esercito belga, seduti attorno ad un tavolaccio, davanti a una capanna sotto un albero, accanto ai loro Kalašnikov.
Ci hanno chiesto i passaporti e noi, naturalmente, glieli abbiamo dati. Dopo un’ora, non erano ancora tornati.
È passata un’auto con un europeo, evidentemente stanziale perché ha parlato con una donna che aspetta non si sa cosa.
“Ci mettono sempre tanto?” – gli ho chiesto.
“A volte qui rubano i passaporti UE, valgono tanti soldi, provi a vedere se sono nella capanna.”
Sono entrato nella capanna: era vuota.
“Madame dice- mi ha ragguagliato il Belga indicando la donna – che sono andati a Bukavu, ma che forse tornano benché sia venerdì.”
“Come “forse”? E noi che Facciamo? Stiamo qui ad aspettare i loro comodi sotto quest’albero fino a lunedì? ”
Il Belga ha allargato le braccia, è rimontato in macchina ed è partito.
Andare a Bukavu a cercarli era assurdo, non li avremmo mai trovati, non li avremmo nemmeno riconosciuti: sarò poco fisionomista, ma a me i Bantu sembravano tutti eguali. Senza passaporti non potevamo rientrare in Rwanda, quindi avremmo dovuto cercare un volo per Kinshasa e farci rilasciare un nuovo passaporto all’Ambasciata, ma tutto il nostro programma, gorilla compresi, sarebbe saltato.
Un colpo di fortuna (si fa per dire): dopo altre due ore di angosciata attesa, due delle guardie sono ricomparse a bordo di uno scooter. Ci hanno spiegato che abbiamo sì il visto per lo Zaire ma non quello per il distretto del Kivu.
“Bene, allora dateci il visto per il Kivu.”
“Sì, ma costa cento dollari.”
“Cento dollari? Ma siete pazzi.”
“Come volete, ma allora non possiamo rendervi i passaporti con i quali siete entrati irregolarmente in Zaire appunto perché privo del visto per il Kivu.”
A quel punto abbiamo capito:” Ragazzi – ho detto – datemi cento dollari a testa sennò da qui non ci schiodiamo”
Nessuna ricevuta: il visto era un francobollo celebrativo del Kivu con un annullo datario.
Siamo risaliti nel pulmino un poco depressi e molto arrabbiati e ci siamo diretti a Nord, verso Goma. La strada costeggia la riva sinistra del Lago Kivu e supera l’ingresso al parco dei gorilla di Kahuzi Biega, pubblicizzato con due gigantografie a colori di gorilla, sforacchiate pesantemente da colpi di mitra. Abbiamo traversato Goma, una grande città di quasi 900.000 abitanti alloggiati in qualche casa in muratura ad un piano e, per il resto, in baracche di cartone e lamiera, a comporre una immensa favela, e ci siamo diretti verso Rutshuru ed il Lago Edwards, adesso Amin.
VITSHUMBI
Nel pomeriggio, stanchi e ancora piuttosto amareggiati dall’esperienza frontaliera, siamo arrivati al Lodge di Vitshumbi sul lago Amin. Il Lodge è situato sulla riva del lago da cui è separato da un vasto prato ben tenuto, in lieve pendio. E, meraviglia, sul prato pascola un elefante. È la realizzazione plastica dell’idea romantica dell’Africa nera dove le belve quasi convivono con gli umani.
“Deve trattarsi dell’elefante del Lodge -abbiamo pensato- messo lì a pascolare perché i turisti lo possano avvicinare e fotografare. In sud America lo fanno con i Guanacos e i Llamas.”
Senza passare dalla reception, abbiamo saltato il basso muretto della terrazza prospicente la sala da pranzo e ci siamo avvicinati all’elefante brandendo le nostre Nikon, febbrilmente ricaricate. Arrivati a tre metri dal pachiderma, abbiamo cominciato ad immortalare questo stretto contatto con il Behemoth, da raccontare a generazioni di nipoti.
L’elefante ci ha guardato, ha scosso le orecchie, alzato la proboscide per annusare i nuovi odori, ma non si è mosso. Ci avviciniamo ancora, è incredibile – pensiamo- come possano essere mansueti gli elefanti addomesticati. Il Lodge ha avuto un’idea geniale per attirare i clienti. Scattiamo e poi, un passo alla volta arretriamo: l’elefante ha abbassato la testa ed ha barrito, battendo una zampa sul suolo. Samo tornati nel Lodge affrettando il passo, arrossati dall’adrenalina e siamo passati a prendere le chiavi delle nostre stanze dal Concierge.
“E’ proprio carino il vostro elefante addomesticato: come si chiama?”
“Quale elefante?” mi chiede il Concierge
“Ma, quello qui fuori sul prato.”
“Ah quello non è un “nostro” elefante, è un elefante del tutto selvatico che ogni tanto esce dalla foresta e viene qui davanti a bere nel lago. Non vi avvicinate mai, restate al di qua del muretto, può essere cattivo: l’anno scorso ha ucciso un turista svizzero che si era avvicinato troppo. Improvvisamente lo ha caricato, buttato per aria e poi lo ha calpestato, non c’è stato nulla da fare”.
“Avvicinato quanto?”
“Ma, due, tre metri.”
Tutti devono avere passato una notte agitata, e non solo per un ippopotamo che circolava tra i bungalows emettendo grugniti e sgradevoli rumori intestinali, perché la mattina dopo ho visto parecchi occhi arrossati.
Comunque passare la giornata in un parco nazionale poco conosciuto e frequentato, con l’aria fresca del mattino e le nuvole bianche dal fondo piatto che appaiono come appoggiate sul cielo africano può offrire, in aggiunta alla visione di tanti bellissimi animali selvatici, un’esperienza sempre gioiosa e rinvigorente, benché stancante.
Quando, a mezzogiorno, siamo rientrati al Lodge abbiamo trovato tutto il nostro bagaglio, affrettatamente riempito, allineato nella hall.
Il Concierge, in realtà un po’ imbarazzato, ci ha comunicato che è in arrivo Sua Eccellenza Mobutu Sese Seko, Presidente della Repubblica Democratica del Congo -Zaire e che tutto il Lodge è stato requisito da lui per il week-end. Dovremo tornare a Goma in serata.
“Be’ -ho detto ai miei abbacchiati compagni – almeno mangiamo subito, prima che arrivi – e mi sono diretto verso la sala da pranzo, ma sulla porta ci hanno fermato:
“Ci dispiace Signori, ma la sala da pranzo è riservata per Sua Eccellenza, Mobutu Sese Seko, etc…”
“Ho capito, ho capito, insomma lui.”
“Se vuole – ha aggiunto il Maître con un sorriso accattivante – posso portarvi dei panini e della frutta sulla terrazza come ho già fatto per gli altri Signori ospiti. La vista sul lago è bellissima”.
Non avevamo scelta, anche perché non sapevamo se saremmo arrivati a Goma in tempo per cenare. Piuttosto ingrugnati, ci siamo quindi accomodati, in pieno solleone, sull’ampia terrazza separata, come detto, dal prato con un basso muretto. Oggi, oltre il muretto pascolava un nutrito gruppo di babbuini.
“Carini – ha detto Elisabetta – dai: mettiamoci nella tavola presso il muretto, così vediamo i babuini da vicino.”
“Non abbia timore signore – ci ha detto un cameriere indicando due ragazzi muniti di pentole e mestoli – li teniamo lontani, ma non offrite loro da mangiare” – e ci ha indicato dei cartelli piantati sul muretto che dicevano: “Défense de nourrir les animaux.”
Ci hanno portato dei panini: molto pane e poco formaggio e carne secca, con delle banane e del vino.
Abbiamo sentito nel cielo il motore di un velivolo in avvicinamento e, dopo poco nel prato davanti a noi è infatti atterrato, mettendo in fuga i babuini, un elicottero dal quale sono scesi sei bianchi dall’aria feroce vestiti di kaki: portavano giubbotti anti-proiettile e cartuccere, erano armati con AK 47 russi e M16 americani ed uno portava perfino una mitragliatrice leggera Spandau, evidente residuato della Wehrmacht. Erano la scorta di mercenari del Presidente. Dopo alcuni minuti è atterrato fragorosamente nel prato un secondo elicottero e da questo sono scese quattro donne vistosamente truccate e profumate, con tacchi altissimi che sorreggevano corpi dalle protuberanze vistose e male ancorate al tronco. Parlavano ad alta voce e ridevano sguaiate, evidentemente erano di ottimo umore. Ma non era tutto: dopo di loro sono scese dall’elicottero anche due donne bianche, con i capelli cotonati e biondissimi, magre e dall’aria mesta. In verità avevano più l’aspetto di sartine di paese che di regine del sesso. Quando sono passate accanto alla nostra tavola ci hanno rivolto uno sguardo disperato, una muta richiesta di aiuto. Ma cosa potevamo fare?
Con la scorta e l’harem personale già a terra, è giunto un terzo elicottero da cui è sceso Lui, proprio Lui, il Presidente, in sahariana verde scuro, bustina e pantofoloni in pelliccia di leopardo e cravache sotto l’ascella. Il personale del Lodge si è abbandonato ad un frenetico applauso condito da estatici ululati tribali. Il Presidente, al lugubre suono di quello che probabilmente era l’inno nazionale, è entrato nella sala da pranzo del Lodge da cui ci aveva espulsi e si è seduto alla tavola centrale, circondato dalle autorità locali, mentre le cicalanti madamine erano state relegate in una tavola d’angolo. I babuini, ripresisi da tutto quel frenetico baccano, hanno rapidamente occupato nuovamente le loro posizioni al di là del muretto.
“Secondo me hanno fame” – ha detto Massimo strizzandomi l’occhio.
“Lo penso anche io” – gli ho risposto.
“Magari un pezzettino di pane…”
“Ma certo. Cosa vuoi che sia. Magari il Presidente, lì dentro apprezzerà.”
“Già, magari.”
Il pezzettino di pane è volato e un babuino lo ha golosamente acchiappato al volo saltando sul muretto.
I ragazzi hanno cominciato a battere i mestoli sulle pentole e, a quel fracasso, il babuino è scappato.
Altri due pezzettini di pane sono volati, chissà come, dalla nostra tavola ed i babuini sul muretto adesso erano cinque, molto tesi.
Ho visto che anche i turisti scandinavi della tavola accanto alla nostra buttavano una banana verso il muretto.
Nei successivi dieci secondi i babuini sul muretto erano diventati venti, frementi e molto vocali, poi cinquanta decisamente eccitati, mentre il lancio di pezzetti di pane e di fette di banana si intensificava.
Poi la diga del muretto non ha più retto e tutti i babuini, certo più di cento, lo hanno saltato e sono dilagati sulla la terrazza, correndo tra le gambe dei commensali e saltando sui tavoli per rubare il cibo dai piatti dei turisti terrorizzati. Poi hanno visto che altre persone erano sedute intorno a tavole imbandite nella sala da pranzo all’interno e si sono avventati ululando e ringhiando verso l’edificio, mentre i camerieri chiudevano precipitosamente le vetrate scorrevoli.
Abbiamo visto il Direttore del Lodge che si avvicinava urlando: “Chi ha dato da mangiare ai babuini?”
“Non se la prenda Direttore – gli ho detto – è una manifestazione di affetto per il Presidente. Dopo tutto anche loro – ho aggiunto indicando i babuini – sono suoi sudditi. Ma no, forse quest’ultima cosa è meglio che non gliela riferisca.”
A quel punto la situazione era sfuggita completamente di mano. Due mercenari hanno girato l’angolo e hanno scaricato in aria i loro Kalašnikov, creando il panico nei babuini che hanno cercato di riguadagnare il prato. A quel punto ci siamo alzati e, ridendo sgangheratamente, siamo scappati facendoci strada a calci nel parapiglia creato dalle orde di babuini in fuga, dai turisti urlanti e dai camerieri in precario equilibrio, mentre gli altoparlanti incongruamente diffondevano le note di “Volare”. Ash ci aspettava nel pulmino con il motore già acceso.
RUTSHURU
Era già pomeriggio avanzato quando abbiamo superato Rutshuru: la strada non era più asfaltata e le piogge la avevano ridotta in cattive condizioni. Dopo una curva, una fila di massi e rami occupava quasi l’intera carreggiata. Probabilmente segnala una buca, abbiamo pensato. Anche tre uomini armati dell’inevitabile Kalašnikov stavano però in piedi dietro i massi e ci hanno fatto cenno di fermarci. Una pattuglia della polizia stradale? Si sono avvicinati al finestrino e hanno salutato portando le mani ad una inesistente visiera, abbiamo notato che le loro mani tremavano e che avevano gli occhi iniettati di sangue. Dal modo con il quale hanno apostrofato Ash, sembravano molto aggressivi. Non parlavano in swahili, ma in kinyarwandese con voci impastate: evidentemente erano ubriachi o drogati.
” Vogliono vedere i Passaporti” ci ha detto Ash visibilmente impaurito.
“Ma chi sono? Sono della Polizia?”
“Mah -ha risposto Ash – qui non si sa mai, ma a me non sembrano.”
“E allora? I passaporti se li scordano.”
“Dicono – ha riferito Ash dopo un altro violento battibecco – che se non date i passaporti, le signore devono scendere dal pulmino ed andare oltre i massi.”
“Nessuno si muova” – ho detto mentre vedevo che uno di loro era tornato indietro, aveva raccolto i Kalašnikov appoggiati sui massi e li aveva portati ai compagni.
“Ha detto – ha soggiunto Ash – che se non gli lasciamo le signore ci ammazzano tutti.”
“Che strana polizia” – ho pensato. Ero terrorizzato, non riuscivo a pensare: ovviamente non potevamo mollare le nostre amiche, ma neanche farci ammazzare tutti era un’alternativa allettante.
“Datemi cento dollari e tutte le sigarette, i biscotti ed il whisky che avete” – ho detto agli amici- io ci provo, voi state qui buoni e soprattutto pregate, pregate molto.”
Sono sceso e, molto lentamente, ho fatto qualche passo verso il trio cha aveva puntato le armi: cercavo di sorridere e mostravo i cento dollari ed il sacchetto dei regali. Facendo ricorso al pochissimo swahili che conosco, continuavo a mormorare “tefadali” (salve), “asante sahna” (molte grazie) e, sperando che fossero mussulmani “Mungu ye kubwa” (Dio è grande). Hanno preso tutto quello che offrivo ed hanno cominciato a parlarmi in tono imperioso, ma io non capivo nulla. Lentamente sono arretrato verso la porta scorrevole del pulmino che era stata lasciata aperta. Ash gridava qualche cosa, loro rispondevano, prendevamo tempo.
“Ringraziano, noi possiamo andare, ma dobbiamo lasciare le signore” – ha riferito Ash.
Ero disperato, non sapevo più cosa fare, in piedi accanto al pulmino, tremavo fissando sbadato lo specchietto, e allora li ho visti: stavano giungendo due camion pieni zeppi di persone, bandiere e canti, erano sostenitori di Mobutu che tornavano a Goma dalla manifestazione in suo onore che aveva avuto luogo a Vitshumbi qualche ora fa.
Gli autisti hanno frenato, hanno visto che i massi non consentivano ai camion di passare, hanno chiesto ai tre rapitori di spostarli e, ricevutane una risposta negativa, hanno abbassato le paratie, inondando la strada con una marea di uomini, donne e bambini che hanno circondato il pulmino, dirigendosi verso i massi nell’intento di spostarli loro o spargendosi nelle cunette laterali per fare i loro bisogni.
I rapitori hanno cercato di impedire che i massi fossero spostati e si sono distratti, era il momento: ho fatto un salto all’indietro nello sportello aperto atterrando seduto sul pavimento, con le gambe ancora fuori, ed ho urlato ad Ash “Vai, vai”.
Mentre il pulmino si avventava, un rapitore mi si è parato davanti cercando di tirarmi giù per una gamba, con l’altra gli ho dato un calcio in faccia e lui ha perso l’equilibrio. Superati massi eravamo salvi: abbiamo sentito raffiche di mira ma dovevano essere in aria perché il pumino non è stato colpito.
Dopo dieci chilometri ho chiesto di fermare, siamo scesi e ci siamo abbracciati: chi piangeva e chi rideva istericamente.
La mattina seguente, ripassando davanti all’entrata del Parco di Kahuzi Biega, Ash ancora pallidissimo, ci ha chiesto con voce incerta: “Volete andare a vedere i gorilla?”
“No, Ash – abbiamo risposto in coro – del Congo Zaire ne abbiamo abbastanza, portaci in Rwanda prima che ci ammazzino tutti.”
Quella sera, al Hotel Méridien di Giseny, sulla sponda rwandese del lago Kivu, ci sembrò di essere in Svizzera.
Che avventura! Ho anch’io un ottimo ricordo di Giseny e dell’hotel Méridien. Per fortuna per noi Goma é stato solo un veloce passaggio! Bello il racconto.
Bello e impressionante, una vera avventura, per fortuna, finita bene.