LA LAMPADINA/RACCONTI – La ricerca della fine del mondo – Parte seconda – Cabo de Boa Esperança

La ricerca della fine del mondo
Parte seconda: Cabo da Boa Esperança
di Giovanni Verusio

Sono più d’una le storie sulle ragioni per cui questo promontorio lungo una sessantina di chilometri, situato all’estremità meridionale del continente africano, porta questo nome. Quando nel 1487, il portoghese Bartolomeu Dias con le sue tre navicelle cercava di raggiungere le Indie, dopo una lunghissima navigazione con prua a sud, avendo sempre la costa africana a babordo e l’oceano sempre a tribordo, doppiò un capo e si trovò finalmente a navigare con terra a nord ed il sole che gli sorgeva in faccia, capì di non dovere più continuare a sud, ma che adesso stava navigando verso oriente, verso la sua meta.  Nel doppiare il capo, fu però sorpreso da un uragano, tanto che lo battezzò o Cabo das Tormentas, ma proseguì lo stesso fino a circa l’odierna Port Elisabeth. Fu il Re del Portogallo Giovanni II a cambiare il nome del Capo in “o Cabo da Boa Esperança” perché riteneva che la scoperta del capo faceva sorgere una buona speranza di avere scoperto una nuova via per giungere in India.

Dieci anni dopo, nel 1497, Vasco da Gama doppiò di nuovo quel capo e arrivò davvero in India. Solo cinque anni prima però, in Spagna, i “Re Cattolici” Ferdinando ed Isabella, frenetici nella corsa per l’accesso al mercato delle spezie, decisero di finanziare una spedizione che si proponeva di raggiungere le Indie per una rotta del tutto originale “buscar l’oriente por lo occidente”, proposta da un genovese un po’ strambo che in effetti scoprì terra, anzi molte terre a occidente, che però con le Indie non avevano nulla a che fare. Ma questa è un’altra storia.

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Il Capo dista 66 Km. dall’omonima, bellissima città.
Il Capo non è servito da servizi pubblici di trasporto, pertanto occorre noleggiare un’auto.
«Ci sono in giro leoni?» – ho chiesto al noleggiatore, dopo tutto siamo in Africa.
Quello si è messo a ridere: «Leoni proprio no, ma quando arriva al Capo stia attento ai babbuini».
«Scimmie – ho pensato – innocue, chissà cosa voleva dire.»
La strada si snodava lungo le rive dell’Oceano Atlantico ed i giardini che scendono dalle ville che la sovrastano, erano tutti in fiore. Era un tripudio delle 8.500 specie di flora presenti nella regione del Capo: erica, gladioli, fresie, dalie, iris, agapantos, strelitzie, pelargonie e la protea, il fiore nazionale del Sud Africa. Sembra di essere al Lago di Como.
Quando la strada correva vicino ad una stretta spiaggia dell’oceano, si  vedevano nel mare grandi colonie di alghe che coprono la superficie e si muovono con l’onda di risacca dando l’impressione di essere animate dalle foche e dai pinguini che preferiscono invece scaldarsi al sole sulla riva.
L’accesso al Cape of Good Hope Nature Reserve occupa l’estremità meridionale della penisola. All’ingresso, un cartello a colori illustra gli animali che si possono vedere. Gli struzzi, che corrono lungo le piste arruffando le penne delle inutili ali, le zebre del Capo e diverse varietà di antilopi: red hartebeest, cape rehbock, bontebok e perfino il massiccio eland, che pascolavano sui declivi stepposi, più, naturalmente una vasta varietà di uccelli di terra e di mare che sono difficili e anche noiosi da identificare.
«Niente di pericoloso», ho pensato soddisfatto, guidando in maniera più rilassata verso il parcheggio per fare colazione. Un grande cartello a bordo strada ha però cambiato il mio umore; “Beware of baboons” diceva  “Attenti ai babbuini”,  proprio come mi aveva detto il noleggiatore. Ed aggiungeva: I babbuini sostano nell’area di parcheggio in cerca di cibo, aggrediscono i turisti ed entrano nelle automobili. Di conseguenza  si raccomanda di non lasciare cibo nelle automobili, di chiuderle a chiave perché i babbuini hanno imparato a girare le maniglie, di non camminare portando sporte con cibo, ma tenerlo dentro gli zaini, di consumare i pasti esclusivamente all’interno delle aree dedicate.
Arrivato al parcheggio, la situazione era in effetti alquanto preoccupante: uno o due babbuini sostavano sul cofano o sul tetto di quasi ogni vettura. Pochi minuti erano passati da quando avevo parcheggiato, che ne avevo uno anche io seduto davanti al parabrezza che esplorava con lo sguardo l’interno della vettura per capire  dove  tenevo i sandwich. Quando incrociava il mio sguardo apriva la bocca e mi mostrava i suoi lunghi denti canini.  Appena ho fatto  la mossa di scendere, si è piazzato davanti alla portiera, che ho richiuso precipitosamente. Intanto sentivo che altre manine cercavano di aprire la portiera posteriore che, per fortuna avevo chiuso con la sicura. Alla mia sinistra una signora urlava insulti, combattendo con un babbuino che cercava di strapparle la sporta, che evidentemente conteneva la colazione.
La situazione era entrata in una fase di stallo. Finalmente è giunto un parcheggiatore-guardiano munito di una lunga frusta a sezione quadrata in pelle di ippopotamo. I “miei” babbuini, che dovevano avere già assaggiato quanto dolore fosse capace di infliggere quell’attrezzo, si sono ritirati ed io sono stato scortato dal guardiano fin dentro l’area pic-nic del parcheggio, protetta da un’alta rete sovrastata da filo spinato sì da somigliare ad una sezione di Abu Grail.
Dalla parte opposta in cui si è entrati, si può uscire da Abu Grail, dove inizia un sentiero che porta al Capo. Si segue un crinale fino ad una casamatta ora abbandonata, da dove, durante la seconda guerra mondiale, l’esercito Sud Africano monitorava l’Oceano cercando di individuare gli U-Boot tedeschi che passassero dall’Atlantico all’Oceano Indiano. Non ne avvistarono nemmeno uno.
Superata la casamatta, ho continuato a scendere lungo il crinale che si restringeva sempre di più, seguendo una gobba del terreno cosparsa da lastre di ardesia che, sorgendo verticalmente dal suolo, facevano pensare alle escrescenze ossee sul dorso di uno stegosauro. Come ipnotizzato sono andato avanti, sempre più giù, attratto dall’abisso sul cui fondo vedevo adesso gli ultimi scogli frustati dalle onde, attratto dalla fine di un continente: lì finiva l’Africa, lì avrei voluto sedermi.
Ad un tratto ho udito un richiamo proveniente dall’alto che superava il rumore del frangersi delle onde e, con un sussulto, mi sono reso conto in che posizione mi trovavo: il crinale si era ridotto a meno di un metro di larghezza  ed era oramai così ripido da costituire quasi una parete. Mi ha sommerso un’onda di terrore: se cadevo nessuno sarebbe stato in grado di  recuperami in un tempo ragionevole e sarei morto su quegli  scogli. Mi sono voltato e lentamente, cercando di non scivolare, ho iniziato a risalire arrampicandomi fino a raggiungere delle lastre di ardesia dove sedersi e dove ho trovato i due turisti che mi avevano urlato e che ora mi battevano la mano sulla spalla sorridendo come a chi è sfuggito ad un grave pericolo. Da una quarantina di metri di altezza, potevo adesso contemplare con calma le onde, le correnti ed i gorghi che l’incontro dell’Oceano Atlantico con la corrente das Agulhas proveniente dall’Oceano Indiano, creavano sotto di noi. Il vento era molto forte e sollevava nell’aria alte percentuali di iodio insieme a sule e gabbiani di tutti i tipi che ci passavano davanti trascinati a forte velocità. Come sempre dove si incontrano mari o oceani, sia in acque tranquille come nel Bosforo che in quelle drammaticamente agitate come qui, il mare è ricchissimo di pesci. Quei caroselli di spume, quelle schiere di onde che  si urtavano, creando un caos  così seducente, celavano enormi quantità di pesci che a loro volta, richiamavano innumerevoli squali.
Dinanzi a me non c‘era più niente per quaranta paralleli, salvo l’acqua degli oceani fino alla Terra della Regina Maud nell’Antartide. Sembrava anche di sentire il peso dell’enorme continente che finisce in questo gruppo di scogli, ma che si estende verso nord per settanta e più paralleli, fino a Ras el Tib (Capo Bon), di fronte a Marsala.
Non so bene spiegare come, avendo realizzato di essere giunto ad uno degli orli del mondo, abbia provato un senso  di sgomento e, allo stesso tempo, mi sia commosso, realizzando la misura della mia paucità.
Risalendo la china del sentiero ero un po’ in ansia: come affronterò i babbuini? Invece, giunto sullo spiazzo tuttora presidiato in forze, nessun babbuino mi ha degnato di uno sguardo: loro sanno che chi emerge dal sentiero del Capo ha già mangiato e quindi non ha più nulla da offrire, o meglio da predare; anche la mia auto era “incustodita”: l’intelligenza degli animali spesso sorprende, senza però causare la meraviglia che è un fattore costante degli spettacoli della natura, e di cui tornavo saturo “fino all’orlo”.

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Carlotta Staderini
26 Marzo 2024 13:41

Racconto affascinante e spiritoso. Grazie